I figli degli uomini |
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Un film di Alfonso Cuarón.
Con Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine, Chiwetel Ejiofor, Charlie Hunnam.
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Titolo originale Children of Men.
Drammatico,
durata 114 min.
- Gran Bretagna, USA 2006.
uscita venerdì 17 novembre 2006.
MYMONETRO
I figli degli uomini ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
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Essere cittadini del domani
di elsinchi@libero.itFeedback: |
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mercoledì 26 marzo 2008 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Titolo: I figli degli uomini Regista: Alfonso Cuaròn Sceneggiatura: Timothy Sexton, Interpreti principali: Clive Owen, C.H. Ashitey Attori: Julianne Moore, Michael Caine, Argomento: drammatico Supporto: DVD Anno: 2006 (USA), Durata (minuti): 114 Lingue: italiano Vietato ai minori di 14 anni elsinchi@libero.it La storia proposta nel film, I figli degli uomini, si svolge in un ambiente verosimile riguardante spazi geografici londinesi, in cui s’ipotizza un futuro fantascientifico e nemmeno troppo lontano dalle conseguenze apocalittiche. Nessuna donna è in grado di procreare da ben diciotto anni, con la conseguente minaccia d’estinzione per la specie umana, a causa dell’inquinamento ambientale. Il clima di guerra è quello tipico del genere, in cui eccedono sangue e morte. Si tratta di una reiterazione al male che accompagna lo spettatore per tutta la proiezione della pellicola, da cui è difficile sottrarsi e che finisce col coinvolgere emotivamente. La violenza soltanto in apparenza rappresenta il light motiv della pellicola, diretta da Alfonso Cuaròn e sceneggiata da Timothy Sexton. In realtà, la lezione che si ricava va oltre il gradimento del film, il quale seppur discutibile, offre interessanti spunti d’analisi dei fatti, in cui nulla sembra lasciato al caso. L’atmosfera cupa e opprimente fa da sfondo a tutto lo svolgimento della vicenda narrata, caratterizzata da tinte neutre, a tratti monocromatiche. La scelta operata dal regista, peraltro non inedita, poiché già utilizzata nel film Shindler’s list diretto da Spielberg, è efficace ai fini dell’impatto emotivo e del coinvolgimento dello spettatore. Aria plumbea e desolazione prevalgono con evidenza fin dall’inizio. La brutalità che, si manifesta di scena in scena nelle sue varie sfaccettature, non lascia molto spazio allo sciogliersi dell’intreccio e finisce col relegare a ruoli secondari perfino i protagonisti della storia narrata. Kee, la ragazza di colore, costituisce l’unica eccezione tra tutte le donne ormai incapaci di procreare. Di lei nulla è dato sapere, se non che ricopre un duplice ruolo, quello di madre e di eroina, in quanto portatrice una nuova vita e di salvezza per la continuità della specie umana. Theo, ex attivista pacifista, il cui contributo umanitario darà un significato alla propria esistenza dimostrando il suo lato tenero, appare a tratti paterno più che carismatico (di Clive Owen si ricorda una migliore interpretazione in King Arthur). Julian (Julianne Moore, l’intensa e brava attrice di Lontano dal paradiso), ex moglie di Theo, occupa poco spazio sulla scena ma cercherà di salvare la giovane madre dalla violenza dell’estremismo nazionalistico. Corre l’anno 2027 e Londra, popolata da migliaia di profughi provenienti da tutto il mondo, inclusi numerosi europei mal tollerati dai londinesi, è vinta dalle ostilità dominanti. La guerra, portatrice in ogni tempo di distruzione, evoca nell’immaginario collettivo una visione tetra del globo, rivelandosi atomo opaco di pascoliana memoria. La polvere, le macerie e le rovine diventano una costante tra cui si muovono individui che hanno perso certezze e punti di riferimento. Non è facile condurre un’esistenza pervasa dal male di vivere. Pochi ne sono consapevoli. Gli altri appaiono rassegnati e dolenti, vomitando rabbia e bestemmie. Vagano senza meta tra le vie di una città che ha perso il tratto distintivo della metropoli operosa. E’ uno scenario davvero inquietante, perchè manca il senso dei valori umani: amore, fraternità, amicizia, solidarietà, incluso quello dell’accettazione dell’altro. L’africana Kee sorretta da Theo fugge da questa situazione, incalzata da una ricerca resa più urgente dalla gestazione che sta portando in atto: giorno dopo giorno, mese dopo mese. I due saranno tesi nell’ansia di aprirsi varchi, per scampare alla morte. Theo cercherà di portare a termine la sua missione facendo partorire la giovane nella zona di confine, proteggendo lei e la neonata dai pericoli di una disastrosa e letale guerriglia...raggiungere la meta dove far crescere la piccola in un luogo sicuro, lontano dagli ordigni e dalle granate è il suo obiettivo. Non sarà facile a causa dei numerosi ostacoli ma quando tutto sembra perduto, il regista attua un improvviso cambio di scena. In mezzo alle macerie e a tanta desolazione, provocate dai ripetuti bombardamenti, Cuaròn inserisce, in evidente contrasto, alcuni celebri elementi artistici che, secondo un codice universalmente riconosciuto, seppur estranei alla situazione narrata, vanno interpretati come una rivelazione epifanica . Un’opera d’arte e poi un’altra ancora sono cimeli straordinari, che solo all’apparenza contrastano con l’ambiente londinese prospettato nel futuro 2027. Il David scolpito da Michelangelo, seppur mutilato, sradicato dalla sua sede abituale e recuperato chissà dove, si offre allo spettatore in tutta la sua potenza distogliendo l’attenzione da tante brutture con un implicito effetto estraniante. La statua sta a significare, in opposizione antitetica, che l’arte, oltre a eternare i capolavori prodotti dall’uomo, può restituire quelle umane emozioni soffocate dagli orrori della guerra. Il David evoca, in antitesi col tema proposto, la bellezza assoluta, la perfezione, l’armonia e l’equilibrio, tutto quello che, nel contesto narrato, l’uomo sembra non possiede più. Con un repentino cambio d’inquadratura, poco distante, viene mostrato l’interno di una sala da pranzo londinese dove, a decoro di una grande parete, un imponente dipinto da cui si eleva un coro di grida mute e strozzate. Sono le voci inespresse del Guernica, che l’artista spagnolo Pablo Picasso concepì per esprimere lo sdegno e la ripugnanza nei confronti della classe militare. Il groviglio di corpi deformi e agonizzanti, illuminati impietosamente dalla ragione induce, simbolicamente, a riflettere sul male e sulla sofferenza. Il pittore manifestò la sua profonda commozione con questo dipinto clamoroso, divenuto in seguito l’emblema della distruzione della vita e della civiltà umana. Nella tela, come anche nelle scene del film in oggetto, si nota l’assenza di quelle tonalità capaci di riconsegnare una dimensione calda e viva della realtà. Grigio, nero e bianco sono le uniche tinte in grado di “rendere” in modo crudo le atrocità della guerra. La polvere prodotta dalle macerie “spegne” i colori avvolgendo ogni cosa, come un manto di morte. La ragione dell’accostamento di due capolavori, così artisticamente distanti, rinvia ai periodi storici in cui essi furono realizzati: il florido Rinascimento cinquecentesco e il Novecento, tristemente caratterizzato dalle guerre che hanno sconvolto il mondo. Si tratta d’opere capaci di trasmettere, ai posteri, l’espressione sociale e culturale delle epoche ad esse coeve. E’ evidente che La scelta operata da Cuaròn, sensibile verso il mondo dell’arte, calza a pennello col contesto proposto; pur considerando il contrasto stridente tra la provenienza degli elementi artistici e la loro improbabile, ultima sistemazione. A dimostrazione di un degrado morale senza precedenti, dove nulla è più controllabile. E’ stato accennato che la violenza di per sé, lascia poco scarto al dipanarsi della vicenda esistenziale dei protagonisti. E’ possibile ravvisare uno spiraglio di umanità nella figura dell’anziano amico di Theo: Jasper (interpretato da Michael Caine). Il nostalgico attivista negli anni 60 e 70 del 1900, vive di rimpianti e di ricordi, unico uomo ad avere ancora il privilegio di abitare in un microcosmo verdeggiante, nell’ hinterland londinese, non contaminato dalla follia collettiva. La conclusione del film, tratto da un romanzo dello scrittore di gialli P.D. James, appare forse un po’ deludente rispetto alle attese del pubblico. L’ultima scena termina con l’immagine di Theo, ormai ferito senza scampo che, dopo aver portato in salvo Kee, su una precaria imbarcazione, s’ immola con grandezza d’animo. Una nuova vita al suo fianco ha urgenza di vivere, protetta tra le braccia materne. Freddo, fame, sfinimento non fiaccano la giovane madre, la quale resiste a tutti i patimenti perché sorretta dalla forza della vita che porta con sé. I lampi, accompagnati dai fragori infernali, restituiscono, a tratti, l’immagine di una Londra devastata, mentre la piccola scialuppa lentamente va alla deriva. All’improvviso tra le nebbie diradate appare l’attesa nave/laboratorio che si occupa del “progetto umano”: Tomorrow. Le superstiti, tratte in salvo, dove saranno condotte? Su quale parte del pianeta sarà possibile approdare un domani? Il finale è tutto da interpretare, perché il resto non è dato conoscere. La morale della fabula, oltre gli avvenimenti presentati nell’opera cinematografica, va letta in chiave metaforica, affinché il messaggio giunga forte e chiaro. In fondo riguarda tutti gli uomini e la loro sopravvivenza, in definitiva anche la nostra salvezza. La storia insegna che non abbiamo ancora assorbito il concetto di convivenza, sia negli ambienti dove si concreta il privilegio di esistere per noi occidentali, sia in qualsiasi altra parte del mondo. Manca il riguardo verso gli habitat spesso vulnerabili e fragili che sono facili bersagli di condotte scellerate operate dall’uomo: vandalismi gratuiti, gas tossici, inquinamenti, incendi. Manca la cultura della pace e della non belligeranza, e mancano quelle lotte ideologiche faticosamente condotte da grandi uomini del passato; che hanno pagato con la vita per aver creduto nella forza dei loro pensieri. Dobbiamo dare voce a quelle idee che, se tradotte in azioni concrete sono valide oggi come ieri, al fine di migliorare la qualità della vita e preservare il mondo dalle possibili e devastanti conseguenze delle guerre. Scaturisce, dunque, una seria riflessione sul senso profondo d’appartenenza nella sua accezione più ampia: sull’essere e sul divenire cittadini non soltanto di una razza specifica, quanto di tutta la razza umana in grado di possedere una matrice comune: il seme dell’umanità e non dell’odio. Si auspica che la società migliori e che partendo dai presupposti antropologici, etnografici, e culturali sviluppi in sé la capacità di accogliere tutti indistintamente, senza dover impiegare nessuno sforzo. Solo così saremo uomini veramente liberi e finiremo stretti in un abbraccio globale. Il tema dell’infertilità e, dunque dell’improvvisa incapacità di procreare prospettata nel film, si presta ad una doppia chiave di lettura. Significa aridità di sentimenti, cui si faceva riferimento poc’anzi, da parte di quegli individui che conducono un’esistenza fatta d’egoismi imperanti e consumismi scellerati ed estremi: incapacità di offrire e di donarsi agli altri, di assumersi doveri e responsabilità. Si coglie, nella vicenda, l’esigenza di dare anche un contributo a chi è considerato "diverso": dall’etnico all’osservante di qualsiasi fede, dal colore della pelle al diversamente abile. La moglie di Jasper vegeta su una sedia a rotelle, ma non per questo è da lui meno amata. La sua presenza vuol indicare che l’amore vero, forte e profondo unisce per sempre, nel bene o nel male. Il messaggio di salvezza per l’umanità tutta, e non a caso, giunge infine da una creatura dalla pelle scura. La figura femmina, neonata, acquista un significato altro, richiamando alla mente seppur velatamente, quella di Gesù Salvatore. Le circostanze della venuta al mondo possono, in parte, accomunarli: precarietà, ostilità e patimenti, ad esempio. Cristo, però, 2000 anni fa, nacque in una situazione storica e sociale codificata e ben composta: tra migliaia di bambini che neppure la strage perpetrata da Erode riuscì ad eliminare dalla faccia della Terra. Allora? Siamo qui. Poco importa se il pigmento di un bimbo chiamato Gesù, nato duemila anni fa in Palestina, sia nato scuro oppure no, in fondo, che differenza fa? La verità è che siamo tutti figli di uno stesso Dio. La nascita di un bambino, rappresenta, ogni volta, un dono. Un evento misterioso e straordinario, da non sottovalutare mai, per credenti e atei, perché indispensabile per il prosieguo della specie umana: inclusi tutti i figli degli uomini che nasceranno domani. E.S. elsinchi@libero.it
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