La spina del diavolo

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Un film di Guillermo Del Toro. Con Eduardo Noriega (II), Marisa Paredes, Federico Luppi, Fernando Tielve, Íñigo Garcés.
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Titolo originale El espinazo del diablo. Horror, durata 106 min. - Spagna, Messico 2001. uscita venerdì 30 giugno 2006. MYMONETRO La spina del diavolo * * * - - valutazione media: 3,16 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

I fantasmi di Del Toro metafore della solitudine

di Roberto Nepoti La Repubblica

1939, verso la fine della guerra civile spagnola. Figlio di un eroe di guerra repubblicano ucciso dai nazionalisti Carlos, dieci anni, finisce in un orfanotrofio sperduto alla periferia di tutto. Già i personaggi che lo popolano — direttore, insegnanti, inservienti — sono poco rassicuranti; ma è ancora nulla a paragone del fantasma fanciullo che appare ai poveri pensionanti, per annunciare la morte imminente di molti di loro. Non bastasse, piantata nel bel mezzo del cortile c'è una bomba inesplosa, "ricordo" di un bombardamento.
Esce in Italia con parecchio ritardo questo horror atipico di Guillermo Del Toro, realizzato dal regista messicano prima di Blade II e Hellboy.
Se i due ultimi titoli sono grosse serie B formattate (e però non banali come tanti prodotti hollywoodiani), con La spina del diavolo siamo piuttosto nei territori del "fantastico intimista", filone che Del Toro ha appena riproposto a Cannes con Il labirinto del fauno.
Dietro le convenzioni del film di fantasmi (fantasmi un po' "coreani", col volto bianco e le occhiaie scure), ci viene raccontata una storia ben più inquietante di quelle in uso nel corrente cinema di paura: una metafora di solitudini e di chiusure al mondo in cui — dietro le apparenze manichee - devianze psicologiche e orrori finiscono sempre per ispirarci la compassione e la pietà. Tutti i personaggi si rinchiudono nell'isolamento dell'orfanotrofio, per proteggersi dagli orrori concreti della guerra civile. Ciascun membro della falsa comunità, però, appare un essere disperatamente solo, chiuso in una prigione interiore con cui cerca di affrontare la follia circostante; il che lo costringe a sopportare se stesso, quindi a negarsi. Le vie d'uscita non possono essere che due: lasciar crescere odio e rancore fino a esserne distrutti, oppure trovare in sé il coraggio che, solo, può garantire la salvezza. Lontanamente ispirato a un episodio autobiografico risalente all'infanzia di Guillermo (che, in collegio, fu testimone di un atto violento) e prodotto da Augustin Almodovar, fratello di Pedro, il film si avvale di buone intuizioni registiche, tanto più importanti in uno spazio così claustrofobico, e di un notevole impasto fotografico, lividamente antinaturalistico. Il regista si spinge benoltre le convenzioni dei genere, riuscendo a realizzare un'opera sincera e personale, a sfondo umanista. Con un solo limite: una sorta di bulimia che lo induce a esplorare tutte le possibili ramificazioni dei soggetto smarrendo a tratti, come accade nelle favole, la via che lo porterebbe più direttamente a destinazione.
Da La Repubblica, 30 giugno 2006


di Roberto Nepoti, 30 giugno 2006

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