Mariti e mogli

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Un film di Woody Allen. Con Juliette Lewis, Mia Farrow, Woody Allen, Judy Davis, Liam Neeson.
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Titolo originale Husbands and Wives. Commedia, durata 107 min. - USA 1992.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Dimenticate il recente scandalo pompato dalla cronaca rosa-nera. Mariti e mogli è uno dei grandi film di Woody Allen, da godere - e soffrire - in quanto tale. È anche un film su Woody Allen e il suo love-affair con la figliastra Soon Yi? Certamente, nello stesso senso in cui Monsieur Flaubert poteva affermare: “Madame Bovary c’est moi”. Ma il gusto voyeuristico di andare a spiare in casa Allen-Farrow si spunta contro il senso dolorosamente universale di questo ritratto di una generazione cresciuta nella speranza della liberazione sessuale e finita dentro le costrizioni del rapporto coniugale. E la curiosità morbosa per il love-affair con la ragazzina si smorza di fronte al pudore e all’amarezza con cui è trattato l’episodio. Certo, la finzione è scomodamente personale. E lo spettatore, posto che non sia del tutto insensibile, proverà sicuramente disagio - quello di un osservatore non visto, di un ospite piombato in casa al momento sbagliato - di fronte alle scene e alle scenate tra Allen e Mia Farrow che chiede pateticamente “non mi nascondi mai niente?”.
In questo copione di quella commedia che chiunque abbia attraversato un matrimonio o ricevuto le confidenze di qualche amico coniugalmente o sentimentalmente in crisi conosce a menadito, Woody Allen è costretto a confrontarsi - con più humour, con vent’anni di storia del costume in più alle spalle, con più mondana leggerezza, con non minor angoscia, ma con meno poesia - con il geniale ciclo bergmaniano di Scene da un matrimonio.
Che cos’è la cosa misteriosa chiamata amore di cui parla la bella canzone di Cole Porter che accompagna i titoli di testa? Il matrimonio è veramente un “paraurti contro la solitudine”? E non c’è altro modo per vivere insieme che frustrarsi reciprocamente? Nel disegnare le sue scene da due matrimoni, da qualche flirt di consolazione, dalla crisi dell’andropausa, Woody Allen si pone interrogativi certo meno alti di quanto non abbia fatto in Crimini e misfatti o in Ombre e nebbia, ma dà risposte più viscerali e altrettanto dolorose.
Si sorride perché ci si riconosce. Woody Allen è Gabe Roth, scrittore di insuccesso, professore di creative writing alla Columbia, sposato da dieci anni con Judy (Mia Farrow), che è editor in una rivista di architettura. “Tu usi il sesso per esprimere qualsiasi emozione tranne l’amore,” lo accusa lei. Ma insieme, per dirla bergmanianamente, spazzano ogni giorno lo sporco sotto il tappeto, si immalinconiscono reciprocamente, rimuovono la verità che l’amore è morto. L’altra coppia è costituita da Jack (il regista Sydney Pollack), un brillante uomo d’affari perennemente tentato dalle piccole avventure mercenarie, e da Sally (Judy Davis), che lavora in una specie di “Italia Nostra”, ma non abbastanza da non sentire il vuoto di passione della propria vita. Quando Jack e Sally improvvisamente e tranquillamente annunciano che stanno per separarsi, Judy, forse perché la decisione dei due la costringe ad affrontare la stagnante realtà del suo matrimonio, dà quasi in escandescenze.
La campana del disastro matrimoniale suona anche per lei. Nell’arco di un anno e mezzo - il tempo della finzione del film - Sally viene spinta da Judy tra le braccia di un fascinoso collega (Liam Neeson), Jack si mette con una ragazzotta istruttrice di aerobica e cultrice di astrologia, e Gabe viene tentato per un attimo dalla devozione e dalla civetteria di una sua allieva, Ram (Juliette Lewis), del cui racconto “Il sesso orale e l’età della decostruzione” è un grande ammiratore... Ma la storia dello schermo ha poco in comune con la storia dei rotocalchi. Ram ha sì vent’anni, ma non profuma di nursery. È affascinata dal maestro così come lo è stata da altri cinquantenni, ma è una ragazza di talento che sa pensare con la sua testa, tanto da scagliarsi con critiche ben argomentate contro i parti letterari del povero Gabe. Il quale è in crisi da andropausa sì, tentato sì dalla civetteria di lei, ma saggio quanto basta per non lasciarsi andare.
Questo non impedisce che le basi ormai corrose del suo matrimonio cedano. La “passiva aggressiva” Judy -come la definisce il suo primo marito, spiritosamente incarnato dall’ex presidente della Yale University, Benno Schmidt - è stata morsa anche lei dal demone dell’infelicità e dal desiderio di cambiare. La ritroveremo sposata a Liam Neeson, mentre Jack e Sally si rimettono insieme, forse solo per paura del vuoto sentimentale.
Qualche volta può disturbare il modo fintamente documentaristico scelto da Woody Allen per girare buona parte del film - la camera a mano del sempre bravissimo Di Palma che sventaglia tra i personaggi come in un reportage o in un cinéma-vérité, gli “attacchi sull’asse” di godardiana memoria come se un ipotetico montatore volesse usare tutto il materiale a disposizione, i personaggi che parlano direttamente in macchina, rivolti a un invisibile interlocutore che, se all’inizio si potrebbe scambiare per un analista, si rivela presto un onnisciente intervistatore-narratore. Ma ne esce una sofisticata e amara educazione sentimentale, in cui le risate nascono meno dalla battuta che dalla drammaturgia disperatamente autentica delle situazioni e dalla forza del déjà vu. E qualche volta ci si sente a disagio, come sembrano a disagio in questa prefigurazione del loro disastro coniugale sia Mia Farrow sia Woody Allen, che confessa, nel sottofinale, “mi sono reso conto che ho sciupato tutto”.
In ogni caso, la trionfatrice del film è Judy Davis, che con i suoi perfetti tempi comici è l’ultima sublime incarnazione delle grandi nevrotiche chic di Woody Allen (e se lo spettatore si chiederà che cosa diavolo sono il porcospino e la volpe di cui parla mentre fa, infelicemente, l’amore, dovrà andare a leggere fl riccio e la volpe di Isaiah Berlin, per scoprire il sénso della citazione della sofisticata signora). La tallona per bravura Juliette Lewis (ma dovrebbe fare attenzione che i suoi vezzi non diventino manierismi). Ed è bravissimo Sydney Pollack, cui è affidata la sola scena violenta del film, quando, seccato per la stupidità dei discorsi fatti dalla sua ragazza davanti ai suoi amici intellettuali, la malmena e la umilia. Sono questi i crimini e i misfatti di cui è fatta la vita. Forse anche perché, come dice Gabe, “la vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione”?
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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