Ladykillers

Natalia Aspesi

Si può arricciare il naso, solo un po’ naturalmente, davanti all’ultimo film dei famosi fratelli Joel e Ethan Coen, autori di film immemorabili per cinefili (meno per il pubblico), quali Barton Fink, che nell’atmosfera entusiasta e vivace dei 1991 spinse una giuria particolarmente controcorrente a assegnagli tre premi, Palma d’oro, miglior regia, e quello di miglior attore al protagonista John Turturro? Certo The Ladykillers, in concorso, atteso con la solita estatica trepidazione, mette di buon umore, il che nel nero quotidiano di oggi, può essere considerata una meritevole opera di bene. Ma come il precedente Prima ti sposo poi ti rovino che pure contava su due bellissimi, George Clooney e Catherina Zeta Jones, è uno di quei film leggeri e leggiadri che si vedono volentieri perché totalmente prevedibili ma di cui non ci si ricorda più nulla un minuto dopo.
Non fosse per lo spelacchiato gatto rosso che si aggira per tutto il film con una imperiosa coda ritta e che a un certo punto si appropria di un dito umano appena mozzato da un improvvido dinamitardo, si potrebbe provare un sentimento un tempo inconcepibile verso i due geniali autori: l’impazienza. Fino a chiedersi come mai questo Festival, già non particolarmente brillante, abbia messo in concorso un film certo firmato da due suoi beniamini, ma già visto negli Stati Uniti e molto tiepidamente recensito Risposta: perché The Ladykillers esce in Europa, Italia compresa, la prima settimana di giugno), e ormai la manifestazione di cinema più appassionante del mondo si è messa al servizio della produzione americana, perdendo, di fronte al potere del mercato, un po’ della sua unicità altezzosa ma raffinata. Gli inglesi poi, che sono molto patriottici, irritati, quasi offesi: infatti il film osa ispirarsi a una famosa opera britannica con attori massimamente britannici, quel La signora omicidi, diretta nel 1955 dallo scozzese Alexander Mackendrick, che ormai non passa più in televisione neppure a notte tarda: ed è peccato perché il suo humour nero è reso irresistibile dalla dentatura da squalo di Alec Guinness, una specie di Nosferatu a Londra, da Peter Sellers e Herbert Lom, tutti ormai defunti.
Dal Tamigi al Mississipi, da Guinness a uno del divi più amati e pagati di Hollywood, Tom Hanks, che trasforma io spettrale criminale inglese in un pacioso, forbito, elegante ladro che si spaccia per professore di greco e latino e incanta, o intontisce, le sue vittime recitando con occhio sognante i versi di Edgar Allan Poe. Dice il divo: «Mi sono ispirato a certi professori che ho avuto da ragazzino, presuntuosi e complessati, innamorati della loro erudizione e della loro voce, e che noi prendevamo in giro». Quindi, pizzo e barba ottocenteschi, ciuffetto malandrino, cravattino, abito di lino chiaro con panciotto e orologio a catena, soprabito a mantellina, ombrello. Quello che si presenta come professore prende in affitto una stanza nella casa onorata di una vecchia grossa vedova di colore, (Irma P. Hall) tutta presa dal fervore religioso: nella cantina si dedicherà alla musica che lui definisce rinascimentale o rococò, assieme a suoi quattro amici, i complici con cui prepara la rapina alla cassaforte di una casa da gioco vicina, da raggiungere scavando il tradizionale tunnel.
I quattro ovviamente sono impari a qualsiasi compito, l’ex generale vietnamita, il grosso e tonto giocatore di baseball, II rapper sboccato, l’ex eroe dei diritti civili. Ogni loro guaio fa ridere: uno soffre di diarrea, l’altro beve l’acqua in cui è immersa una dentiera, c’è il nero che paga la bustarella al bianco e il tonto che fa il lavoro bruto per tutti. Anche chi non ha mai visto il film originale, capisce subito che a far fessi tutti sarà l’innocente e devota vedova, che passa il suo tempo tra la chiesa battista a ritmare i gospel e la poltrona del salotto a colloquiare con il ritratto del marito defunto, che cambia espressione ad ogni sfortuna dei miserandi criminali.
Joel e Ethan Coen sanno raccontare con finezza e spirito tutti gli stereotipi dei cinema, e della vita americana, in questo caso dei Sud: poliziotti pigri ed enormi, neri che pregano cantando gospel dentro tuniche di raso giallo, signore di colore con guanti bianchi e cappellino con la veletta, rapper con la pettinatura rasta e la maglietta con la scritta «Gesù è la mia casa», e poi la loro specialità, i personaggi privi di cervello e innocenti, dalle vite solitarie, minime, cui appioppano le battute più Irresistibili. Quante volte abbiamo visto la vecchia nera che parla come il prototipo di tutte, la Mamie di Via col vento ‚ quante volte abbiamo visto il furbo criminale che pare un gentiluomo?
Certo Hanks è molto bravo, come sempre, e fa piacere sapere che lo rivedremo alla Mostra di Venezia in Terminal di Spielberg. Dice, però poco convinto: «Mi piace questo finto professore che si crede il cervello di un gran colpo e che si affida a un gruppo dl poverelli incapaci, Mi interessava la sua virtuosa eloquenza e il modo improvviso in cui lui dall’elegante poetare decide di passare all’azione brutale, adattandosi sereno ad ogni disastro che intralcia il suo progetto».
Da La Repubblica, 19 Maggio 2004


di Natalia Aspesi, 19 Maggio 2004