... E tutti risero

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Da vedere e rivedere Valutazione 5 stelle su cinque

di darkglobe


Feedback: 5773 | altri commenti e recensioni di darkglobe
giovedì 20 aprile 2017

Tutti risero perché tutti erano innamorati”, recitano le parole di They all laughed. Si tratta di una canzone di George ed Ira Gershwin, affidata alla voce di Frank Sinatra, che dà il titolo al film.
Il regista è Peter Bogdanovich, che ambienta e sviluppa la trama a New York, nello specifico in una frenetica Manhattan, nella quale opera una compagnia investigativa privata, la Odissey, il cui motto è “non dormiamo mai”.
A governare le attività è l’anziano capo Leo Leondopolis (George Morfogen), all’apparenza il più serio della squadra, ma l’intera truppa pare abbinare di continuo dovere e piacere, quest’ultimo emblematicamente legato al gioco della seduzione femminile in cui il tampinamento si mischia ossessivamente con l’atto predatorio.
John Russo (Ben Gazzarra) è un incallito e disilluso donnaiolo, divorziato e con due figlie (nella vita figlie del regista); Charles Rutledge (John Ritter) pare il più impacciato dei tre; mentre Arthur Brodsky (Blaine Novak), scapigliato di nome e di fatto, è perseguitato dalla sua cameriera messicana possessiva. Loro compito è essenzialmente il pedinamento, commissionato da mariti gelosi, in questo caso di Angela Niotes (Audrey Hepburn), moglie di un facoltoso milionario piovuto dal cielo in elicottero, della quale dovrà occuparsi John, e di Dolores Martin (Dorothy Stratten), in rotta di collisione col marito, il cui segugio è nel suo caso il timido Charles. Peccato che coloro che dovrebbero controllare la sicurezza delle donne siano in realtà i loro tentatori.
Fanno da corollario una seducente e lentigginosa tassista di nome Sam (Patti Hansen, nella vita moglie di Keith Richards), pronta a consolare il povero John quando la sua cotta, ricambiata, per Angela dovrà fare i conti con la dura realtà; la cantante country Christy Miller (Colleen Camp), che prova a trastullarsi tra un segugio e l’altro della Odissey, fino a quando si rivolgerà con migliori risultati al diciannovenne José (Sean H. Ferrer); infine Amy Lester (Linda MacEwen), la segretaria del severo capo Leo, suo amante.

Film sfortunato, questo di Bogdanovich (l’omicidio della Stratten, di cui il regista si era innamorato durante le riprese, da parte del suo geloso ex compagno; i problemi distributivi della Time-Life; il fallimento infine della casa di produzione Moon Pictures che ne aveva rilevato i diritti), ma non per questo poco riuscito, al punto da essere considerato da Tarantino uno tra i suoi 10 lungometraggi preferiti. E non è difficile comprenderne i motivi, visto che già il suo incipit, di ben 5 minuti, è una lezione di cinema (muto), costruito sul gioco degli sguardi e degli ammiccamenti tra John Russo e la bella tassista Sam, che non si rivolgono per tutto il viaggio in auto una sola parola.
Bogdanovich prima che regista è un critico, che ha studiato, appreso e fatta sua l’arte dei grandi colleghi del passato, siano essi un Lubitsch, un Donen o un Truffaut, tanto per citar dei mentori che sembrano in qualche modo riecheggiare tra i frame di questa pellicola. Film dunque colto, anche se all’apparenza spensierato e un po’ folle, in questo vero e proprio circo di pedinamenti ed inseguimenti. Ma nei fatti film dolce e malinconico, con le sue seduzioni, gli incontri e gli abbandoni, in una assolutamente singolare ma riuscita mescolanza di generi: da un lato il rocambolesco slapstick del goffo Charles, che è totalmente perso nell’anelito per quel misto di innocenza e luminosa bellezza della sua Dolores; dall’altro la commedia sofisticata del quasi impenetrabile John Russo, caduto suo malgrado nella trappola della grazia ammaliante della matura ma ancora affascinante Angela. In questa anomala “partita a quattro” di “un giorno a New York”, entrambi gli investigatori, pur se all’apparenza agli antipodi, sono accomunati dalla magica atmosfera di ansia e felicità che si chiama innamoramento e da aspetti di vissuto che altro non sono che una tessitura autobiografica di momenti di vita, belli o dolorosi, dello stesso regista.

La camera da ripresa corre in leggerezza per le strade di Manhattan (grande il lavoro alla fotografia di Robby Müller) ed i pattini di Arthur ne scandiscono i ritmi: si corre di continuo, come in un film di Truffaut dove l’uomo che “amava le donne” ne spia furtivamente le curve con la complicità dello spettatore.
Si passeggia in luoghi fisici e si rivivono situazioni messe opportunamente in scena in primis col gusto della citazione allusiva, quasi a voler fermare il tempo di fotogrammi degni dell’omaggio del regista, rivivendone fisicamente il momento in cui furono girati. Sicché si passa con disinvoltura dai caotici paesaggi metropolitani di una ribollente ma rassicurante Manhattan, in cui si consumano i pedinamenti cauti e dubbiosi dei nostri eroi, agli elementi simbolici (veri e propri toponomi cinematografici) rappresentati da una via alberata, un negozio famoso, la hall di un hotel hitchcockiano, le luci notturne della città, perfino una gonna di seta bianca che demarca le forme della bella Dolores o ancora un’espressione di mestizia silenziosa legata ad un bogartiano distacco. È come se in certi momenti si stessero quasi ripercorrendo e reiventando pezzetti di grande storia del cinema.

Ciò che arricchisce il quadro sono, a completamento, i formidabili e irridenti scambi di battute che si susseguono, conferendo al film quel carattere un po’ screw: da John che, ad un’Angela preoccupata perché ha il sospetto che il marito la stia facendo pedinare, risponde “Lo so, sono io che la seguo”; alla incontenibile singer country Christy, che appella gli investigatori come “Meravigliosi a letto ma detective di m…da” o che tenta disperatamente di sedurre Charles tastandolo dalla testa ai piedi e chiedendogli ripetutamente “Senti il mio dito?”; o infine allo stesso Charles che chiede a Dolores, con cui ha scambiato più baci che parole, “Vuoi sposarmi?” e lei di rimpallo “Sì, ma dopo il divorzio.
Il film è musicalmente ricco di brani country, che si fanno ascoltare fin dall’inizio, grazie all’autoradio della lentigginosa tassista, o che sono cantati dal vivo nei locali dell’epoca di fine Anni ’70.
…E tutti risero è molto probabilmente una delle migliori commedie americane per quell’indissolubile connubio di leggerezza e complessità che la caratterizza, un film da vedere e rivedere, per divertirsi, commuoversi e capire perché Bogdanovich ha rappresentato il meglio della nuova onda del cinema americano.

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