Father and Son

Il film, di matrice interamente giapponese, affronta il tema dello scambio di neonati, tema peraltro già  trattato nel grande schermo, in particolare nel recente ottimo "Il figlio dell'altra" della regista francese Lorraine Lèvy, col quale, inevitabimente ,ci si trova a fare paragoni ed a trovare differenze...
Film da vedere e meditare entrambi, potremmo dire in estrema sintesi, ma mentre il film della Lèvy esamina il dramma delle coppie coinvolte sotto il profilo sociale  e politico nel contesto della criticissima e conflittuale  convivenza tra arabi ed israeliani, il film giapponese racconta gli eventi dal punto di vista psicologico di uno dei due padri coinvolti, il borghese architetto di successo Ryota, tutto lavoro e poco famiglia, alla quale però detta regole e metodi di comportamento educativi che la moglie Midori, sottomessa ma sincera e sensibile, rispetta con fatica.
Un cliché di ( false) sicurezze, difficilmente modificabile in apparenza, ma destinato a crollare rapidamente non appena  il rifiuto del suo modo di essere "padre", viene espresso, con dolce ma autentica  determinazione da entrambi i bambini , i quali, da oggetto di contesa e di desiderio,  diventano così  i veri arbitri delle dinamiche affettive degli adulti.
Sfumate tutte le figure femminili, come del resto nel film ambientato in Israele, dove però i figli, già adolescenti, pongono temi di riconoscimento ed identità sociale, assenti nel contesto della prima infanzia dei protagonsiti del fim giapponese.Ma proprio da questo essere in secondo piano che le donne del film ,più giovani e più anziane, assumono uno spessore indiretto che rimanda ad una sensibilità concreta che assicura lo svolgersi del quotidiano ed,in ultima analisi,il superamento del dramma, assorbendone gli urti e le difficoltà oggettive che le figure maschili tenderebbero ad amplificare e, quindi,a subirne passivamente gli effetti.
Cupe le scene che ritraggono il rapporto tra Ryota ed il figlio "non di sangue", come lui stesso lo definisce, così come cupa è la sua visione della vita, compressa da un super-impegno sul lavoro che ne copre il grande disagio interiore, inespresso dietro l'alibi di valori sociali che contrabbandano il successo nel lavoro come elisir di felicità. Ma è il dolore, provato nel riconoscersi incapace di amare e quindi di donarsi,che funge da viatico catartico e che scatena il tentativo faticoso ,ma che nel finale fa sperare in un suo successo, di dare spazio ai propri sentimenti. Ed è qui che, a mio avviso, il film giapponese si distingue di più, celebrando i sentimenti  come forza a cui attingere per cambiare se stessi e, in prospettiva, una società votata altrimenti ad una deriva  materialistica, senza spazio per gli affetti e ,dunque,espressione non autentica dell'esistenza.