C'è una frase chiave nel film, che spiega con precisione scientifica la natura del serial killer così "lontana da" e così "vicina a" l'arte che diviene tormento: "E' solamente quando un artista trova la sua ossessione che può iniziare a creare le sue opere d'arte più ispirate..." Quanto è vero, se pensiamo alle Madonne di Leonardo (Monna Lisa compresa), agli autoritratti di Van Gogh, alle donne tahitiane di Gauguin, agli Arlecchini di Picasso (il suo periodo migliore...)
Solo che l'ossessione di zio Eddie è la parola "morte" o "morto" (dead), che ritorna implacabilmente in tutte le sue messe in scena. Sta di fatto che, paradossalmente il detective Stan Aubrey (fallito, alcolizzato, incapace di prevenire un omicidio avvertendo la futura vittima di stare in guardia, accusato di una sommaria esecuzione di un innocente-presunto serial killer...) trova il suo riscatto, il premio al suo narcisismo (sostenuto dal ritorno imperante del BLU, simbolo dell'autocelebrazione) proprio nel contatto e nel "contratto" con l'omicida, che lo vuole a tutti i costi intrappolato e coinvolto nel suo progetto criminale (persino nella scelta delle vittime!). Lo fa agire da Mecenate, poi da allievo di bottega (quando gli fa completare il murale che descrive l'ultimo urlo del suo "ex"-collega), quindi lo rende protagonista di una composizione tanto macabra quanto avvincente, nella spettacolarità del segno grafico.L'arte, benchè dissacrante e a tratti orribile, resta l'assoluta protagonista del film: dietro questa sceneggiatura c'è una ricerca culturale di pregio, il richiamo agli oscurantismi medievali, alle raffinatezze pittoriche dell'Umanesimo, fino all'arte contemporanea, passando per Velasquez, Francis Bacon e Jim Morrison (vedi aforisma sottostante alla foto della povera Krystal Dreiser). Non è da meno la ricerca filologica; ed è un vero peccato che i commenti a margine dell'assassino non siano di volta in volta tradotti, perchè "svelano" il vero intento del serial killer. Un esempio per tutti: il seriale si nasconde sotto il falso nome di Gerri Harden, che, opportunamente anagrammato, significa "red harring", ovvero aringa rossa, ovvero "creare un diversivo", "distogliere dall'esatto significato delle cose"... Sono raffinatezze che lo spettatore non avvertito non può cogliere e che creano un alone di magia e di mistero lungo tutto il dipanarsi dell'avvincente trama, raffinata e colta quel tanto che basta per risultare soporifera ai più... Se è vero Stendhal, (che il cinema non lo ha visto), sarebbe stato entusiasta di questo capo d'opera, mi duole ammettere che gli estimatori dei cinepanettoni e delle pellicole triviali degli anni '70 (vedi Lino Banfi e Edvige Fenech) saranno usciti dal cinema sbadigliando e chiedendosi come sia possibile produrre e distribuire un film così "pesante". Io l'ho visto tre volte e ne ho gustato tutti i più ricercati particolari: la "pesantezza" si è mutata in "insostenibile leggerezza" e i dettagli, sfuggiti ad una prima visione, hanno creato, tutt'intorno al film, una cornice di squisita fattura, tra delirio (quello del seriale) e delizia (quella dello spettatore "averti"...)
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