Torna il Buco, lo stesso buco, per la verità, ma ispirato ad un paradigma diverso. Le meccaniche dell’inferno si sono evolute e lo stato di natura è stato sostituito da un autogoverno artificiosamente solidale e incredibilmente intransigente: da prodighe bestie fameliche e sprocedate, i cittadini del sistema di autogestione sono oggi soldati, autorizzati a consumare la razione di loro competenza, niente di diverso e non una briciola di più. Neanche se l’inquilino del piano superiore non è in grado di mangiare la propria razione, nemmeno se ai piani bassi se la passano male e quel pasto in più potrebbe essere l’unica fonte della loro sopravvivenza. E gli sgarri si pagano: gli abitanti sono uniti, disciplinati e disciplinanti, si educano a vicenda, si monitorano, si puniscono senza sconti in nome dell’unica legge di cui sono realmente convinti, che è quella di rispettare la legge senza interrogazioni o passi indietro.
Più moderno, ma ancora niente a che vedere con un sistema moderno: la giustizia che vige nel buco è una giustizia privata, barbara, autodeterminata da misteriosi Ungido che hanno pagato sulla propria pelle ieri il prezzo della libertà sfrenata e che dunque oggi si ergono a paladini della solidarietà civile e dell’uguaglianza. Uguaglianza, a ben vedere, esasperata, intransigente, senza eccezioni. Il governo infatti castiga brutalmente, butta cibo in nome della libertà e paga prezzi orribili (mai propri), sacrificando sull’altare del rispetto della legge i più deboli, quelli dei piani bassi, vittime designate costrette ad fiondarsi ardenti e luminose come meteore arresi ad un ideale che non scelgono.
Ma se il buco non ha tempo e non ha storia, noi sì: essa ci insegna che essere eguali non significa essere ugualmente trattati a prescindere dalle circostanze ma, tutto al contrario, il trattamento giusto ed eguale è, per sua natura, differenziato, diversificato sulla base della singola condizione diseguale, perché l’uguaglianza è il fine, non il mezzo.
Ma, oltre all’uguaglianza, ciò che il buco interroga è la libertà, perché i due modelli relativi ai due capitoli suggeriscono declinazioni non sovrapponibili, laddove tutti la difendono ma nessuno ha ben chiaro cosa sia. Quindi scoppia la rivolta degli sleali che vogliono la “libertà da”, contro i leali che questa la rifuggono perché pericolosa e quindi si battono per la “libertà di”. Posso dirmi libero quando posso fare ciò che voglio senza inibizioni né controllo, esposto al rischio di essere preda della libertà altrui? O meglio una libertà centellinata, soppesata, presidiata da tagliole di giustizialismo e giudici carnefici che gridano alla solidarietà mentre danno in pasto donne nude agli affamati ai quali hanno negato il cibo in avanzo poco prima?
Vero che le regole servono, che anche Hobbes avrebbe abdicato all’idea di un tutti contro tutti, ma anche (la regola per cui) uccidere per costruire un futuro dove nessuno viene ucciso non è arbitrario, non è barbaro? Libertà è cambiare i presupposti, trovare scorci inediti, e questo lo si fa solo cambiando le carte in tavola, mangiando cozze invece che pizza, perché ciò che si nasce deve non poter necessariamente coincidere con ciò si muore.
Assodato è anche che l’eccezione del giusto è la scusa dello sleale, che la radice di -1 è immaginaria; ma il buco è sempre più reale, impone riflessioni pratiche e costruttive alla ricerca di una soluzione affinché la schiera di poveri dei piani bassi sia sfoltita, non alimentata di innocenti peccatori e morti.
Quindi, libertà o società, cozze o pizza? La scelta è sempre nostra.
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