Tre generazioni e una tragedia che meriterebbe uno stile sobrio
di Emiliano Morreale La Repubblica
Tre episodi collegati attraverso i decenni, da un unico destino. Tre situazioni dall' evidente aspetto teatrale (il regista accompagna all' attività cinematografica un' intensa sperimentazione teatrale), che è l' aspetto forse più interessante del film. Dapprima siamo in una stanza buia, con uomini in cappotti di pelle che puliscono, e scorgono dei capelli che escono dalle pareti, dal pavimento, dai tubi. Capiamo che si tratta delle docce di un lager al momento della liberazione, e da una botola si ascolta il pianto di una neonata, che viene messa in salvo. Nel secondo episodio la bambina è ormai un' anziana, che deve ricevere un' onorificenza per la propria attività di custode della memoria, e racconta ancora una volta la propria vicenda (il parto della madre, la vita all' insegna del trauma) alla figlia che vive a Berlino ed è preoccupata per il proprio, di figlio. Il quale, cresciuto, è il protagonista dell' ultimo episodio: disadattato nella scuola tedesca, insofferente delle proprie origini ebraiche, innamorato di una coetanea musulmana. L' ungherese Mundruczó si è fatto una reputazione di autore da festival con film effettistici su grandi temi ( White dog , Una luna chiamata Europa ) e, dopo la trasferta americana di Pieces of a woman , torna in Europa con un' operazione molto a tavolino, che non risparmia momenti forti o sgradevoli, e usa in maniera fin troppo astuta grandi temi. Lo salva, nel secondo episodio, la sconvolgente prova d' attrice, una delle migliori viste al cinema negli ultimi tempi, di Lili Monori nel ruolo della sopravvissuta: di perfetta naturalezza, con un miracoloso evitare ogni birignao. Ma lo stile del regista (lunghissimi piani-sequenza, uno per ogni episodio) è talmente ostentato che alla fine si mangia il film.
Da La Repubblica, 27 gennaio 2022
di Emiliano Morreale, 27 gennaio 2022