flyanto
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lunedì 8 ottobre 2018
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una lunga ed amara considerazione sulla turchia
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“L’Albero dei Frutti Selvatici” è l’ultima opera del regista turco Nuri Bilge Ceylan presente in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane dove, attraverso la rappresentazione del rapporto tra un padre ed un figlio, viene ritratta la condizione della Turchia contemporanea.
La storia ruota tutta intorno ad un ragazzo di circa 23/24 anni che, laureatosi in scienze della comunicazione, ritorna a casa in un paesino di una zona rurale da cui egli era ben volentieri si era allontanato. Il ritorno per lui non si presenta, però, del tutto positivo in quanto il giovane, escluse la madre e la sorella, non ha da molto tempo un buon rapporto col padre insegnante che disprezza profondamente poichè dedito troppo al gioco ed alle corse dei cavalli e, pertanto, ritenuto da lui, un irresponsabile nei confronti della famiglia che vive, per questa motivazione, in condizioni economiche alquanto disagiate da lungo tempo.
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“L’Albero dei Frutti Selvatici” è l’ultima opera del regista turco Nuri Bilge Ceylan presente in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane dove, attraverso la rappresentazione del rapporto tra un padre ed un figlio, viene ritratta la condizione della Turchia contemporanea.
La storia ruota tutta intorno ad un ragazzo di circa 23/24 anni che, laureatosi in scienze della comunicazione, ritorna a casa in un paesino di una zona rurale da cui egli era ben volentieri si era allontanato. Il ritorno per lui non si presenta, però, del tutto positivo in quanto il giovane, escluse la madre e la sorella, non ha da molto tempo un buon rapporto col padre insegnante che disprezza profondamente poichè dedito troppo al gioco ed alle corse dei cavalli e, pertanto, ritenuto da lui, un irresponsabile nei confronti della famiglia che vive, per questa motivazione, in condizioni economiche alquanto disagiate da lungo tempo. Nel corso della sua permanenza nel villaggio natio, il protagonista, ancora senza un’ occupazione stabile lavorativa, tenta, malvolentieri, di superare l’esame di Stato al fine di diventare anch’egli insegnante, ma l’aspirazione del giovane è in realtà quella di pubblicare un libro da lui scritto di racconti sui propri luoghi d’infanzia e su personali ricordi che però si dimostra essere un’impresa alquanto difficile e poco probabile. Tra le giornate trascorse a rivedere le vecchie amicizie e quelle trascorse presso la casa degli amati nonni, il giovane si sente giorno per giorno sempre più estraneo e lontano nella mentalità dall’ambiente quanto mai provinciale ed arretrato dei luoghi dell’infanzia come, nel contempo, anche sempre più distante dal padre. Il tempo lo farà ricredere….
Le opere di Nuri Bilge Ceylan, tempisticamente parlando, non sono mai brevi e così anche quest’ultima, della durata di più di 180 minuti (188 per la precisione), non si discosta dalle precedenti. Ma la caratteristica di questo regista turco non è tanto la lunga durata delle sue pellicole quanto il suo tipico andamento lento con cui, richiamando alquanto il regista iraniano Abbas Kiarostami, egli racconta le storie e dà allo spettatore l’idea della contemporaneità delle azioni come anche, in senso più lato e simbolico, della concezione di immobilismo che regna nella maggior parte della sua terra, la Turchia, soprattutto nelle zone rurali lontane dalle grandi città. In tutti suoi i suoi films Ceylan ha ben ritratto il proprio paese e qui, ne “L’Albero dia Frutti Selvatici”, lo ritrae in una maniera sempre più consapevole e matura, evidenziandone tutte le caratteristiche, le arretratezze e le contraddizioni ma dimostrandone anche il proprio amore-odio. Un rapporto ambivalente che lo lega profondamente alla sua terra e che, magnificamente e simbolicamente, Ceylan rappresenta attraverso la parallela descrizione del rapporto di odio-amore esistente tra il giovane protagonista e suo padre. “L’Albero dei Frutti Selvatici” che dà il titolo al film sta ad indicare tutto ciò che di buono e positivo, sebbene strano ed all’apparenza anche poco attraente, può nascere a volte da un albero: come il giovane protagonista che discende, suo malgrado, dalla stirpe paterna tanto odiata e combattuta, così, forse, anche per la popolazione turca esiste una speranza di miglioramento e di maggiore apertura.
La storia, in conclusione, priva di qualsiasi azione, è una lunghissima riflessione filosofica e simbolica della situazione contemporanea della Turchia che Ceylan presenta, come sempre, in una forma altamente poetica, dolente e quanto mai profonda, nonché tecnicamente perfetta, ed attraverso i dialoghie e le riprese fotografiche che richiamano direttamente alla pittura. Insomma, con questo gioiello Ceylan si riconferma senza alcun dubbio un regista di grande talento ed un esempio di cinema di qualità.
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[+] un albero come simbolo di rinascita della turchia
(di antoniomontefalcone)
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vanessa zarastro
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lunedì 15 ottobre 2018
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il territorio è protagonista
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Il regista Nuri Bilge Ceylanè considerato uno dei più raffinati e sensibili tra quelli europei. I suoi film sono stati sempre segnalati a Cannes - premiato “Usak” nel 2003 - e anche quest’ultimo intitolato “Ahlat Agaci” in originale, cioè pero selvatico, ha riscosso ottime critiche e anche successo di pubblico, nonostante le tre ore di durata.
Sinan (Dogu Demirkol)è un giovane neo-laureato che ritorna a casa dopo gli studi svolti presso l’Università di Çanakkale, sulle rive dell’Egeo. Il padre Idris (Murat Cemcir)insegna nella scuola del villaggio, è alla soglia della pensione ed è stato uno stimato maestro elementare.
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Il regista Nuri Bilge Ceylanè considerato uno dei più raffinati e sensibili tra quelli europei. I suoi film sono stati sempre segnalati a Cannes - premiato “Usak” nel 2003 - e anche quest’ultimo intitolato “Ahlat Agaci” in originale, cioè pero selvatico, ha riscosso ottime critiche e anche successo di pubblico, nonostante le tre ore di durata.
Sinan (Dogu Demirkol)è un giovane neo-laureato che ritorna a casa dopo gli studi svolti presso l’Università di Çanakkale, sulle rive dell’Egeo. Il padre Idris (Murat Cemcir)insegna nella scuola del villaggio, è alla soglia della pensione ed è stato uno stimato maestro elementare. Purtroppo il vizio del gioco dei cavalli lo ha fatto indebitare un po’ con tutti gli abitanti del paese. Çan è una cittadina in montagna di 30.000 abitanti nella Regione della Marmara in Anatolia occidentale, è la vera protagonista del film: il dramma familiare e quello esistenziale, si intrecciano con il rapporto con la natura - sia città o sia territorio -, cui l’uomo è chiamato ad obbedire e dipendere. Qui convivono mentalità rurali e mentalità progressiste e le immagini della cittadina riportano sia le betoniere e le fabbriche, sia i poderi semi-aridi dove vivono ancora i nonni di Sinan, dediti più alla pastorizia che alla coltivazione per mancanza di acqua. Ma il sogno di X è di trasformare la terra riportando il verde, pertanto passa i week-end a scavare un pozzo infinito, senza successo.
Asuman (Bennu Yildirimlar), la madre di Sinan, e Yasemin (Reyhan Asena Keskinci), la sorella, sono disperate per la situazione dei debiti accumulati da Idris e glielo rinfacciano ogni secondo. Lei a quarant’anni è andata a fare da baby-sitter per poter racimolare qualche soldo che non basta mai, nonostante ormai gestisca lei lo stipendio del marito.
Idris a causa della dipendenza dal gioco ha perso la sua dignità, racimola soldi qua e là e finirà per rubarli di nascosto perfino al figlio.
Il film narra un anno di vita in questa zona, vista attraverso gli occhi del giovane, una sorta di versione turca de “Il giovane Holden”, che vuole scappar da lì perché non può accettare una vita ”normale”, ma non riesce a decidere il suo futuro. Fare l’insegnante e andare in un paesino dell’est della Turchia, dove c’è pericolo di continue sommosse – così considerate - data la situazione curda? Oppure accettare un qualsiasi lavoro e restare a Çan? L’unico suo vero desiderio è la scrittura e cerca con tutti i mezzi di far pubblicare il suo primo libro – “Ahlat Agaci” per l’appunto - che è una raccolta di racconti intimisti. A questo scopo incontra il Sindaco – molto bello il dialogo – che lo manda dall’imprenditore illuminato apparentemente finanziatore e mecenate. Ma i suoi scritti, nonostante ottengano i complimenti, non sono un genere che possa interessare particolarmente né tantomeno attrarre investimenti. Dovrà arrangiarsi da solo se vuole pubblicarlo.
Riguardo alla situazione politica turca i protagonisti sembrano non essere particolarmente sensibili nei confronti dei problemi sociali o delle rivendicazioni di minoranze.Come sottolineava la mia compagna di cinema, nel film c’è perlomeno un’ambivalenza evocata, anche se non esplicitata, tra la consapevolezza del proprio vivere che i vari personaggi esprimono e una sorda e non detta inquietudine verso un nemico che crea disordine. Tale inquietudine diventa esplicita solo nelle parole al telefono del poliziotto, ex compagno di studi di Sinan, che riconosce di agire in modo violento probabilmente anche per sfogare le proprie insoddisfazioni, e però lo fa massacrando un socialista. Questa contraddizione e inquietudine di sottofondo è interessante e in qualche modo è uno degli elementi di critica che il regista porta avanti, anche se in modo estremamente sobrio, riguardo la situazione politico religiosa in Turchia.
Sinan non si trova a suo agio con gli altri giovani, non capisce le donne – “ora piangono ora ridono…” e si difende evitando di affezionarsi. Molto bello è l’incontro con una vecchia amica il cui padre ha deciso di farla maritare a un ricco gioielliere.
La bellezza del film, a parte i panorami affascinanti ma anche estremamente inquietanti, è basato sui vari incontri di Sinan e i relativi dialoghi. Polemico e provocatorio incontra in una libreria di Çanakkale, un famoso scrittore di cui ha ascoltato una conferenza su la letteratura rurale, e lo subissa di domande imbarazzanti. Lì va a rifugiarsi nel Cavallo di Troia rimasto dal film “Troy” di Wofgang Peterson del 2004, con Brad Pittcome statua urbana.
A Çan, invece Sinan si cimenta in discussioni su filosofia e religione con due Imam criticando, e non tanto velatamente, il loro rapporto con i beni materiali e mettendo in risalto delle incongruenze nel loro comportamento. Pensando di avere un compito moralizzatore, vorrebbe forse cambiare il mondo, come ogni giovane idealista, ma così riesce solo a diventare antipatico.
C’è una sorta di doppio finale in cui entrambi possono essere interpretati come proiezione mentale di Sinan che da un lato si riscontra simile al padre – l’unico peraltro che avrà letto il suo libro - dall’altra nella sua indecisione sul proprio futuro si rende conto di non avere scampo.
Il cinema di Nuri Bilge Ceylan è fatto di campi medi e primi lunghi con camera ferma, molti silenzi e pochi piani-sequenza. Il linguaggio sempre molto curato ricorda, e talvolta si rifà in modo esplicito, i testi classici russi con parole sobrie anche quando il concetto è difficile. Gli oggetti rappresentati nei suoi film hanno il ruolo di mettere in evidenza il tempo che passa, la precarietà e l’assenza di prospettive. Gli interni delle case sono teatro dei conflitti e la famiglia viene demistificata.
Su ilfattoquotidiano.it Marcello Barison aveva già rilevato un’affinità con la regia dell’ungherese Bèla Tarr che gira sempre con lunghi piani sequenza ma in bianco e nero. I film di Tarr, inoltre, trattano temi che indagano gli esseri umani principalmente nelle sue forme più degradate e incivili e raccontano dell'impotenza dell'uomo davanti alla morte. Ma in Ceylan c’è anche tanto cinema di Bergman, per il lavoro accurato che non salva nessuno, mostra le incongruenze morali e le rivela lentamente in un crescendo cui sembrerebbe mancare la catastrofe finale. Lo spettatore vive i film di Ceylon attendendo un evento, invece le insofferenze e i risentimenti sono l’inevitabile palude in cui ristagna la loro vita rispetto alla quale nessuna fuga è praticabile.
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goldy
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domenica 7 ottobre 2018
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lungo ma ne vale la pena
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Un lungo film di parola, di dialoghi la cui intensità spinge a seguirli e non fanno rimpiangere un più rapido succedersi delle immagini. Una strategia narrativa che cattura lo spettatore perchè capace di coinvolgere su eventi della contemporaneità e sulla storia di rapporti di una famiglia turca non consueti sui nostri schermi. Il più riuscito dei tre film recenti di Ceylan, il più omogeneo, il più autentico.Più interessato a comunicare l'immagine del suo paese che la sua bravura di regista. . Parla della sua gente, della sua terra con argomenti che non sono estranei anche alla nostra realtà occidentale.
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Un lungo film di parola, di dialoghi la cui intensità spinge a seguirli e non fanno rimpiangere un più rapido succedersi delle immagini. Una strategia narrativa che cattura lo spettatore perchè capace di coinvolgere su eventi della contemporaneità e sulla storia di rapporti di una famiglia turca non consueti sui nostri schermi. Il più riuscito dei tre film recenti di Ceylan, il più omogeneo, il più autentico.Più interessato a comunicare l'immagine del suo paese che la sua bravura di regista. . Parla della sua gente, della sua terra con argomenti che non sono estranei anche alla nostra realtà occidentale..
Certo il doppiaggio snatura molto il dialogo togliendo credibilità ma non sapendo il turco.... Forse meglio con i sottotitoli ma che fatica vista la durata di 188 minuti.
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