zarar
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venerdì 21 aprile 2017
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la forza delle donne
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Film apertamente femminista, elementare nel disegno, ma pieno di energia, empatia, passione, costruito intorno a tre ragazze palestinesi che condividono un appartamento a Tel Aviv. La regista palestinese Maysaloun Hamoud, al suo esordio, si riconosce debitrice di Almodovar e in effetti nel film si ritrova lo scatto, la determinazione, il dialogo deciso, i colori forti del regista spagnolo. Ma qui c’è meno simbolismo, meno design futurista, un più forte impatto di realtà, una maggiore concessione al pathos che sta sotto a scelte decisive, rivoluzionarie. L’ambiente in cui vivono le protagoniste è problematico non solo per motivi politici, che qui non sono al centro dell’attenzione, ma per una coesistenza paradossale di mondi antitetici, apparentemente incompatibili.
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Film apertamente femminista, elementare nel disegno, ma pieno di energia, empatia, passione, costruito intorno a tre ragazze palestinesi che condividono un appartamento a Tel Aviv. La regista palestinese Maysaloun Hamoud, al suo esordio, si riconosce debitrice di Almodovar e in effetti nel film si ritrova lo scatto, la determinazione, il dialogo deciso, i colori forti del regista spagnolo. Ma qui c’è meno simbolismo, meno design futurista, un più forte impatto di realtà, una maggiore concessione al pathos che sta sotto a scelte decisive, rivoluzionarie. L’ambiente in cui vivono le protagoniste è problematico non solo per motivi politici, che qui non sono al centro dell’attenzione, ma per una coesistenza paradossale di mondi antitetici, apparentemente incompatibili. Alle tre ragazze non è mancata educazione e una buona dose di libertà: Laila è avvocato, Salma è una DJ, Nour studia informatica e tutte e tre vivono sole in città, pur provenendo da paesi e famiglie della tradizione più conservatrice. Nessuno impedisce alla bella Laila di vestirsi in modo provocante, bere, sniffare droghe, fare l’amore; Salma ha un look pop, piercing ovunque ed è pronta a difendere la sua omosessualità; ambedue fanno della notte giorno in discoteca; persino Nour, la timida musulmana osservante con tanto di hijab, goffa ma dolcissima, tiene testa in modo mite ma tenace ad un fidanzato che la vorrebbe molto più sottomessa e che snobba il suo attaccamento allo studio. Tre ragazze con una loro personalità, che però finiscono con lo scontrarsi con le contraddizioni e le ipocrisie di una società che è stata investita dalla modernità anche nei suoi aspetti più disordinati e trasgressivi, ma resta arcaica nel non riconoscere libertà e dignità sostanziale alla donna nel suo rapporto con l'uomo e con l'istituzione familiare. Un contrasto che genera mille ipocrisie, ma che permane tenacemente. L’uomo di cui Laila è innamorata è ben contento di essere il suo amante, ma si vergognerebbe di lei come sposa; la famiglia di Salma dà per scontato per lei un matrimonio combinato e scopre con orrore la sua omosessualità; Nour è violentata dal fidanzato che vuole forzarla ad un matrimonio precoce. In mezzo al guado tra passato e futuro, ma indomite, terranno duro tutte e tre e difenderanno la loro dignità di donne, ritrovando la forza che viene dal senso di sé, dalla solideriatà femminile e dalla capacità, anche quella tutta femminile, di guardare avanti prima e meglio di molti uomini. Bei primi piani, bel ritmo. Impagabile il fermo immagine finale, lo sguardo di infinita commiserazione con cui le tre protagoniste contemplano dall’esterno un gruppo di maschi molto qualunque che si sono lasciate alle spalle, mentre gli spettatori, e soprattutto le spettatrici , se ne vanno soddisfatte. Tre stelle e mezzo.
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adelio
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mercoledì 6 dicembre 2017
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3 donne, 3 religioni, 1 solo maschio
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Tre ragazze, tre donne, tre religioni monoteiste sullo sfondo un’antica idea di un Israele che identifichiamo con Gerusalemme e una nuova realtà vissuta dalle giovani generazioni in una Tel Aviv moderna e materialista.
Un racconto di tre donne la cui condizione nasce da radici profonde, culturalmente molto diverse, ma che tutte hanno il limite della supremazia maschile e della chiusura totale nei confronti di temi quali la convivenza, l’omossesualità, la parità della donna, la sua professionalità e la sua autosufficienza economica.
Un mondo maschile che ne esce rotto, se non completamente ridicolizzato, invischiato in dogmi religiosi convenienti solo ai propri fini, osservante regole sociali valide solo per il pubblico giudizio, moralità dimenticate nel mondo privato.
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Tre ragazze, tre donne, tre religioni monoteiste sullo sfondo un’antica idea di un Israele che identifichiamo con Gerusalemme e una nuova realtà vissuta dalle giovani generazioni in una Tel Aviv moderna e materialista.
Un racconto di tre donne la cui condizione nasce da radici profonde, culturalmente molto diverse, ma che tutte hanno il limite della supremazia maschile e della chiusura totale nei confronti di temi quali la convivenza, l’omossesualità, la parità della donna, la sua professionalità e la sua autosufficienza economica.
Un mondo maschile che ne esce rotto, se non completamente ridicolizzato, invischiato in dogmi religiosi convenienti solo ai propri fini, osservante regole sociali valide solo per il pubblico giudizio, moralità dimenticate nel mondo privato.
Giovani maschi che guardano ancora molto alle apparenze e al giudizio del formalismo social-religioso, contrapposti a giovani donne che appaiono più libere e, tutto sommato, spregiudicate nei confronti delle dottrine che subiscono e che in fondo vivono come l’esercizio di un potere vecchio, ostile e insopportabile.
La morale delle 3 religioni monoteiste più importanti al mondo ha prodotto una gioventù che ha grinta, voglia di fare, ma che è completamente perduta in prospettive evanescenti e vacue come le sigarette che tutti fumano persistentemente nel corso del film.
Fumo purtroppo, tanto, troppo fumo che prelude all’interrogativo finale dell’icona che mostra le tre ragazze con lo sfondo dello skyline di una moderna e materiale Tel Aviv…
Quale futuro in questa terra, quale convivenza fra queste tre religioni oltre la Gerusalemme della spiritualità, oltre la convivenza morale dei Preti, dei Rabbini e degli Imam?
Il film è bello, descrive con delicatezza la personalità delle 3 donne protagoniste e delle loro identità sessuali, l’immagine è, per contro, un po’ meno benigna nei confronti dei loro compagni incapaci di liberarsi dai gioghi atavici che inibiscono la loro intelligenza, che interferiscono nei rapporti con le compagne. “Ometti” che appaiono all’occhio dello Spettatore quasi come soggetti inermi, deboli e moralmente poveri, vittime di una cultura a loro insaputa e contro ogni loro volontà.
Lo stesso compagno della ragazza musulmana all’atto di compiere lo stupro nei confronti della sua promessa sposa è talmente fuori realtà e contro ogni credo (specie il suo che fa riferimento all’Islam) che induce compassione e sembra chiedere pietà nei suoi confronti in quanto vittima inconsapevole di imposizioni culturali interiorizzate senza il beneficio del dubbio. Verrebbe voglia di dire citando il titolo di un libro famosa “Pevera Santa, Povero Assassino”.
Una deriva delle giovani generazioni a metà strada tra la secolarizzazione delle 3 religioni che convivono in Israele e la globalizzazione del mondo…..insomma sembra esserci ancora molto “fumo” e poco “arrosto” nella vita di questi ragazzi.
Gran bel film, piacevole a vedersi..con ritmo e a tratti simpatico.
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zoomecontrozoom
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lunedì 10 aprile 2017
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ognuno stia alle regole del proprio ovile
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Il fermo immagine col quale si chiude il film, non è, come lo era per “Thelma & Louise”, liricamente sospeso in quell’unico millesimo possibile di felicità nell’avventura della vita, ma
è il “punto e a capo”, quello che si deve mettere quando, fatte delle esperienze importanti, avendo imparato come funzionano le cose, si può ricominciare. Diversamente.
Le tre giovani hanno questa possibilità, dato che invece di essere con il F.I. sospese sopra un baratro, stanno semplicemente sedute su di un muretto ed hanno di conseguenza come ipotetica proiezione, la possibilità di vivere ancora. La domanda che pone questo racconto di tre giovani vite che devono ancora spaziare nel mondo, la domanda è: ma come si può vivere, conoscendo l’ineluttabilità dei limiti della propria libertà ?
Le attitudini, o tendenze affettive ed esistenziali delle tre donne, non sono una scoperta sconvolgente, di sconvolgente in questo racconto, non c’è nulla di sconosciuto o che non succeda altrove, è solo la corrente che percorre il filo spinato dell’ovile, che è diversa, ma diversa in ogni luogo a seconda della “caratterialità” di uomini e donne, persone, che hanno plasmato e costruito nei tempi, il proprio Paese.
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Il fermo immagine col quale si chiude il film, non è, come lo era per “Thelma & Louise”, liricamente sospeso in quell’unico millesimo possibile di felicità nell’avventura della vita, ma
è il “punto e a capo”, quello che si deve mettere quando, fatte delle esperienze importanti, avendo imparato come funzionano le cose, si può ricominciare. Diversamente.
Le tre giovani hanno questa possibilità, dato che invece di essere con il F.I. sospese sopra un baratro, stanno semplicemente sedute su di un muretto ed hanno di conseguenza come ipotetica proiezione, la possibilità di vivere ancora. La domanda che pone questo racconto di tre giovani vite che devono ancora spaziare nel mondo, la domanda è: ma come si può vivere, conoscendo l’ineluttabilità dei limiti della propria libertà ?
Le attitudini, o tendenze affettive ed esistenziali delle tre donne, non sono una scoperta sconvolgente, di sconvolgente in questo racconto, non c’è nulla di sconosciuto o che non succeda altrove, è solo la corrente che percorre il filo spinato dell’ovile, che è diversa, ma diversa in ogni luogo a seconda della “caratterialità” di uomini e donne, persone, che hanno plasmato e costruito nei tempi, il proprio Paese. Sì, è un film sconvolgente, ma non per la sessualità lesbica, non per lo stupro, non per la cocaina sniffata, lo sconvolgente è nell’ipocrita esistenza di chi non è come loro, ma sa, fa, capisce e finge, anzi, riconosce il valore e non l’ipocrisia: la famiglia, che è per il matrimonio senza amore, il fidanzato che con le lodi ad Allāh cova in sè sentimenti abbietti e violenti, il compagno che finge quello che non è sapendo che il proprio legame è solo menzogna di se stesso. Queste sono le cose sconvolgenti che il regista mette in luce, in quanto esistono nell’accettazione totale e farisea “distinguendosi per un accentuato rigorismo etico e per uno scrupoloso formalismo nell'osservanza della legge”. Questi sono gli elementi ai quali le tre donne si ribellano, ognuna soffrendo in modo diverso, ma è quello il F.I. del film: quello della consapevolezza della sofferenza ineluttabile. Le interpretazioni femminili e le situazioni entro le quali si muovono, sono portate all’eccesso, una sottolineatura forte, e contrastano con la magmatica imperturbabilità della “normalità”. Qualche spiraglio che fa un po’ di luce in questo scenario, è solamente il lampo di un genitore più sensibile, ma è un po’ poco. Bella pure la muta solidarietà femminile allo stupro.
Un film che sbatte in faccia la realtà con molti primi piani di donne che hanno volti intensi, molto diversi dalla bellezza patinata e “cartonacea” dei film Occidentali dove biondi, belli, aitanti trascinano il branco. La bellezza delle donne mediorientali, ha uno spessore quasi palpabile, mentre qui, i ruoli maschili, sono più neutri, non ci sono volti o loro aspetti che incuriosiscano. Gli ambienti sono poco trattati, la macchina da presa è sulle ragazze e il racconto non è sempre fluido nelle strategie che sceglie, ma è un buon film che riassume e rilancia chiedendo una smentita che non può esserci se non nella presa di coscienza di donne che comincino a capire cos’è la libertà negata.
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mauriziomeres
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martedì 11 aprile 2017
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la voglia di libertà
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Bellissimo ritratto esistenziale di tre ragazze palestinesi, vivono in una Tel Aviv trasgressiva e sopratutto fin troppo libera nei costumi di un islamismo integralista,ma sicuramente aperta al libero pensiero, differenti caratterialmente l'una dall'altra, ma profondamente coinvolte in una libera amicizia e soprattutto in un aiuto reciproco,essendo di fede Islamica ognuna di loro porta con se situazioni famigliari,ancorate nel rispetto della loro fede religiosa.
Ottimo esordio della regista Ungherese,Maysaloun Hamoud,attenta, scrupolosa, con molto tatto riesce ad evidenziare tutte le contraddizioni che in qualsiasi religione emergono nella loro interpretazione, ma capace anche di far uscire quello che ogni essere umano possiede nel profondo dell'anima,amore e comprensione.
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Bellissimo ritratto esistenziale di tre ragazze palestinesi, vivono in una Tel Aviv trasgressiva e sopratutto fin troppo libera nei costumi di un islamismo integralista,ma sicuramente aperta al libero pensiero, differenti caratterialmente l'una dall'altra, ma profondamente coinvolte in una libera amicizia e soprattutto in un aiuto reciproco,essendo di fede Islamica ognuna di loro porta con se situazioni famigliari,ancorate nel rispetto della loro fede religiosa.
Ottimo esordio della regista Ungherese,Maysaloun Hamoud,attenta, scrupolosa, con molto tatto riesce ad evidenziare tutte le contraddizioni che in qualsiasi religione emergono nella loro interpretazione, ma capace anche di far uscire quello che ogni essere umano possiede nel profondo dell'anima,amore e comprensione.
Bravissime e anche loro all'esordio cinematografico le tre ragazze,interpretano nel migliore dei modi il ritratto personale di quello che sono nel film,sceneggiatura semplice,scorrevole e anche accattivante,intersecando i tre profili femminili,senza mai sovrapporsi.
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andilento
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sabato 20 maggio 2017
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l'avvocato di tel aviv
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Leila spegne l'ennesima sigaretta, si veste, si trucca. Le luci sono sempre soffuse, nella casa, non capisci se sia mattina o sera finché non vedi che dopo essersi ripassata un rossetto più rosso del sangue afferra una borsa da ufficio. Una borsa da avvocato, scopriremo poi, quando commenterà con un collega l'esito dell'udienza davanti al tribunale, aspirando l'ennesima sigaretta. Più che da una causa, sembra reduce da un agguato, la grinta è la stessa, molto simile a quella dell'intrigante Salma, la coinquilina dj. La terza donna, quella succube, non subisce la violenza di un uomo, ma la violenza di un musulmano.
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Leila spegne l'ennesima sigaretta, si veste, si trucca. Le luci sono sempre soffuse, nella casa, non capisci se sia mattina o sera finché non vedi che dopo essersi ripassata un rossetto più rosso del sangue afferra una borsa da ufficio. Una borsa da avvocato, scopriremo poi, quando commenterà con un collega l'esito dell'udienza davanti al tribunale, aspirando l'ennesima sigaretta. Più che da una causa, sembra reduce da un agguato, la grinta è la stessa, molto simile a quella dell'intrigante Salma, la coinquilina dj. La terza donna, quella succube, non subisce la violenza di un uomo, ma la violenza di un musulmano. L'impressione generale, al di là di un film girato bene, è quella di uno squallore che potrebbe essere trasferito in un sobborgo di Chicago senza perdere credibilità, visto che il punto non mi sembra tanto quello dello status da single né quello religioso - fermo restando che i molestatori musulmani li trovi pure in Brianza - quanto quello affettivo nel suo complesso. Queste donne sono brillanti e capaci, oltre che seduttive, ma del tutto digiune di educazione sentimentale, vanno in tribunale come se andassero in guerra. Non è che qui a piazzale Clodio sia molto diverso.
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alice88
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venerdì 7 aprile 2017
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quello che le donne... dicono
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Film battagliero e, al tempo stesso, capace di grazia e leggerezza, "Libere, disobbedienti e innamorate" è sicuramente la grande rivelazione di questa stagione cinematografica. Un'opera prima che, sotto il segno del girl power, parla di amicizia e di indipendenza femminile, senza cadere negli stereotipi e nella retorica. Si ride, si sorride, ci si commuove, ci si indigna: insomma, l'esordio di Maysaloun Hamoud colpisce al cuore e allo stomaco, facendoti uscire dalla sala con la certezza di aver visto un film davvero importante.
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vanessa zarastro
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giovedì 4 maggio 2017
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“né qui né altrove”
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La realtà di donne arabe in Israele è difficilmente raccontata. Ancora meno nel cinema mediorientale si vedono storie di ragazze che vogliono sentirsi dinamiche e brillanti e vivere all’occidentale, distaccandosi del tutto o in parte, dalla cultura dominante.
Libere, disobbedienti, innamorate – in beteewn è un film in cuisi vede che la regia è di una donna. Le figure delle tre ragazze che condividono una casa a Tel Aviv sono trattate con grande attenzione così come i loro rapporti genitoriali che sono molto difficili.
Le tre roommates hanno vite molto diverse: una è di Taybe, due vengono dal distretto di Haifa.
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La realtà di donne arabe in Israele è difficilmente raccontata. Ancora meno nel cinema mediorientale si vedono storie di ragazze che vogliono sentirsi dinamiche e brillanti e vivere all’occidentale, distaccandosi del tutto o in parte, dalla cultura dominante.
Libere, disobbedienti, innamorate – in beteewn è un film in cuisi vede che la regia è di una donna. Le figure delle tre ragazze che condividono una casa a Tel Aviv sono trattate con grande attenzione così come i loro rapporti genitoriali che sono molto difficili.
Le tre roommates hanno vite molto diverse: una è di Taybe, due vengono dal distretto di Haifa. Laila (la seduttiva Mouna Hawa) sembra essere la più disinvolta e trasgressiva, una brava avvocatessa penalista accanita fumatrice e non solo di tabacco. Salma (Sana Jammelieh) si occupa di musica, ma per guadagnare un po’ fa vari lavoretti, dall’aiuto cuoca alla barista; cerca una sua strada di realizzazione, nonostante provenga da genitori arabo-cristiani bigotti il cui desiderio è solo vederla sposata. Nur è una serissima studentessa arabo-mussulmana ortodossa (con il velo) che proviene dal villaggio di Umm al-Fahm; per volere dei genitori è promessa sposa a un ragazzo iper-tradizionalista e gelosissimo che vorrebbe rinunciasse a un futuro lavoro per restare a casa ad accudire figli e marito.
La vera emancipazione arriverà attraverso rinunce, sacrifici e sofferenze, pagando un prezzo molto alto per l’affermazione della propria libertà. Salma scoprirà la sua omosessualità (i genitori la considerano malata e minacciano di internarla) e scapperà di casa con l’idea di partire per Berlino. Nur avrà il coraggio di lasciare il fidanzato violento e possessivo, e Leila si renderà conto che anche il suo ragazzo, più evoluto e apparentemente “aperto”, possiede idee conservatrici e maschiliste e mai la vorrebbe sposare. Infatti, a un certo punto le suggerisce di cambiare atteggiamento e di smettere di fumare e le dice: «Mica stiamo in Europa!»- mito di terre libere e di gente emancipata.
Maysaloun Hamoud, con questa sua opera prima, ha voluto smascherare l’ipocrisia della religione con gli ostentati valori della purezza e della tradizione, ma anche quella degli atteggiamenti più apparentemente laici e progressisti di molti ragazzi arabi. In tal modo, la regista, ragazza trentasettenne nata a Budapest ma trasferitasi con la famiglia a Dur Hana in Israele, mostra, attraverso il paradosso, la realtà della condizione femminile. Il titolo originale del film è Bar Bahr in arabo tra terra e mare, in ebraico né qui né altrove comunica bene la difficoltà di trovare un’identificazione al di là dei facili modelli noti, stereotipati ma certi.
Il film, premiato a Toronto a San Sebastian e a Haifa Film Festival, presenta una malinconia di fondo, specialmente riguardo alla nuova generazione, ma il film è raccontato con spigliatezza, in forma di commedia, e alcune scene sono bellissime. La solidarietà che si respira tra Salma e Leila, quando lavano Nur sotto la doccia e la consolano, è veramente commovente e quella scena vale tutto il film.
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flyanto
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lunedì 10 aprile 2017
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tre donne emancipate contro una società retrogada
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Già dal titolo (sia quello italiano "Libere, Disobbedienti, Innamorate", che inglese "In Between" ed israeliano la cui traduzione più o meno è "Tra Terra e Mare") si evince che si sta ad indicare una posizione 'di mezzo', non definita e, comunque, in contrapposizione con quella 'ufficiale' prestabilita e consentita.
E le tre giovani donne palestinesi protagoniste della suddetta pellicola cinematografica, abitanti nella città di Tel Aviv, costituiscono l'esempio lampante di questa condizione di contrapposizione ad un modello standard fortemente radicato nella cultura e nell'ambiente in cui vivono.
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Già dal titolo (sia quello italiano "Libere, Disobbedienti, Innamorate", che inglese "In Between" ed israeliano la cui traduzione più o meno è "Tra Terra e Mare") si evince che si sta ad indicare una posizione 'di mezzo', non definita e, comunque, in contrapposizione con quella 'ufficiale' prestabilita e consentita.
E le tre giovani donne palestinesi protagoniste della suddetta pellicola cinematografica, abitanti nella città di Tel Aviv, costituiscono l'esempio lampante di questa condizione di contrapposizione ad un modello standard fortemente radicato nella cultura e nell'ambiente in cui vivono. Esse, infatti, rappresentano, sia pure in una maniera differente l'una dall'altra, tre tipologie di donne moderne, emancipate e seguaci fortemente della propria libertà individuale. Vi è quella che è un avvocato penalista e che preferisce rimanere single piuttosto che sottomessa ad un uomo prevaricatore ed ancora ancorato ai dettami ormai superati della cultura tradizionale; poi vi è la giovane dee-jay che deve tenere nascosta la propria omosessualità perchè ovviamente rifiutata e disapprovata dalla propria famiglia tradizionale; ed infine la studentessa, seguace ortodossa della religione musulmana, che è già promessa in sposa ad un uomo tradizionale, bigotto e prevaricatore, nonchè violento, a cui alla fine giustamente ella si ribella. Pagheranno con la solitudine e l'emarginazione da parte dei più la propria indipendenza e 'spregiudicatezza'.
La regista Maysaloun Hamoud, dunque, presenta molto efficacemente sullo schermo tre tipologie di donne contemporanee e moderne di mentalità e con un 'modus vivendi' nettamente in contrasto con un ambiente ed una società ancora fortemente legata al passato ed alle sue tradizioni ormai superate. La loro lotta per fare prevalere i propri desideri e i propri principi all'avanguardia, molto vicini a quelli del mondo occidentale, è dura e soprattutto reca inevitabilmente con sè il prezzo di una condizione di isolamento, di solitudine e di discriminazione da parte della maggior parte della società ma, ben consapevoli e determinate, esse preferiscono non rinunciare alla propria reale natura dii opposizione alle regole ed essere coerenti con se stesse. Il film, per quanto non proponga una tematica del tutto nuova (a riguardo, sia pure in una forma e con un trama ben diverse, richiama parecchio "La Sposa Turca" del regista turco Fath Akin) risulta comunque interessante e ben fatto e sicuramente di denuncia di una certa condizione in cui ancor oggi molte donne ancora purtroppo sono costrette a vivere, pertanto la pellicola è sicuramente consigliabile per indurre lo spettatore a riflettere seriamente su una realtà alquanto deplorevole e, purtroppo, ancora radicata al giorno d'oggi.
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lapo10
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mercoledì 13 dicembre 2017
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tre donne diverse, un unico destino
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Dopo averlo inseguito parecchio sono riuscito a vedere il bel film di Maysaloun Hamoud sul grande schermo. Girato quasi sempre nella notte di Tel Aviv il film ci racconta di tre ragazze palestinesi che hanno due sole cose in comune: l'appartamento in cui vivono e il destino comune. Già, perché Noor, Salma e Leila non potrebbero essere più diverse tra loro per estrazione sociale, religione, provenienza, istruzione e libertà. Noor è una giovane studentessa promessa sposa a Wissam e appartiene al mondo dell'ortodossia Islamica. Salma è avvocato di successo ed ha abbandonato il paese per raggiungere il proprio obiettivo, non senza conflitti e sacrifici. Veste e vive all'Occidente e questo rende problematico il suo rapporto con Ziad.
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Dopo averlo inseguito parecchio sono riuscito a vedere il bel film di Maysaloun Hamoud sul grande schermo. Girato quasi sempre nella notte di Tel Aviv il film ci racconta di tre ragazze palestinesi che hanno due sole cose in comune: l'appartamento in cui vivono e il destino comune. Già, perché Noor, Salma e Leila non potrebbero essere più diverse tra loro per estrazione sociale, religione, provenienza, istruzione e libertà. Noor è una giovane studentessa promessa sposa a Wissam e appartiene al mondo dell'ortodossia Islamica. Salma è avvocato di successo ed ha abbandonato il paese per raggiungere il proprio obiettivo, non senza conflitti e sacrifici. Veste e vive all'Occidente e questo rende problematico il suo rapporto con Ziad. Leila è cristiana e non vuole piegarsi ai desideri della famiglia che la vorrebbe sposata al più presto. Cocciuta e liberale passa da un lavoro all'altro pur di difendere la propria autonomia. Con le ragazze sono protagonisti i luoghi della narrazione: le stanze di casa, l'auto di Salma, i localini fumosi e buii dove le ragazze fanno baldoria a ritmo di una bellissima musica techno-folk. Ambienti stretti ed angusti come le prigioni mentali di chi vorrebbe privarle della possibilità di decidere autonomamente della propria mente e del proprio corpo. "Certe cose è bene tenerle rinchiuse dentro il proprio cuore" spiega Noor al padre perché anche il riserbo sulla propria vita può significare libertà benché dolorosa e dilaniante. Criticata in patria per l'audacia, Maysaloun Hamoud ha avuto il coraggio di trasporre sullo schermo una lezione di disobbedienza, che non è quella civile teorizzata da Thoreau del cittadino verso lo Stato, ma è quella di giovani donne che resistono ai propri padri, ai propri promessi sposi, ai propri amanti cercando al contempo di restare fedeli alle proprie convinzioni. Dicevo che le tre protagoniste hanno anche un destino comune: la rabbia, la frustrazione e la disillusione di chi è costretto a lottare per affermare i propri valori e a subire le conseguenze delle scelte fatte nel proprio intimo. Questo sembra essere il destino di tutte le donne a prescindere dal tessuto sociale che le ha generate, secondo la regista: messaggio triste e realistico mitigato da un fragoroso ritorno di speranza, quanso le onde del mare si abbattono sul corpo, per la prima volta libero, di Noor sulla spiaggia.
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citri
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martedì 2 maggio 2017
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fregate
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Lasciate ogni speranza voi ch’entrate. 28 Aprile 2017 – Flavia Lepre
Fregate
Questo titolo preparerebbe meglio la/o spettatrice/ore al messaggio finale del film “Libere disobbedienti innamorate”, di Maysaloun Hamoud.
Non c’è da dubitare delle intenzioni “femministe” della regista palestinese, nata a Budapest e cresciuta e vivente in Israele. Certo, ma solo se si tratta di un “femminismo” strettamente emancipazionista, perché il film con una qualche liberazione non c’entra niente. Ed è sorprendente l’entusiasmo che esso ha suscitato in alcune. L’uso delle varie dimensioni del personale-politico è e resta uno strumento nella battaglia culturale e sociale, in alcuni casi per l’ampliamento di orizzonti angusti, in altri per la conquista di consensi.
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Lasciate ogni speranza voi ch’entrate. 28 Aprile 2017 – Flavia Lepre
Fregate
Questo titolo preparerebbe meglio la/o spettatrice/ore al messaggio finale del film “Libere disobbedienti innamorate”, di Maysaloun Hamoud.
Non c’è da dubitare delle intenzioni “femministe” della regista palestinese, nata a Budapest e cresciuta e vivente in Israele. Certo, ma solo se si tratta di un “femminismo” strettamente emancipazionista, perché il film con una qualche liberazione non c’entra niente. Ed è sorprendente l’entusiasmo che esso ha suscitato in alcune. L’uso delle varie dimensioni del personale-politico è e resta uno strumento nella battaglia culturale e sociale, in alcuni casi per l’ampliamento di orizzonti angusti, in altri per la conquista di consensi. Anche le Fémen hanno avuto qualche disorientato estimatore, così come è notorio che il pinkwashing sia un cavallo di battaglia per la promozione di un’immagine d’Israele più appetibile per il consumo culturale occidentale. La domanda sui valori proposti da “Libere disobbedienti innamorate” è centrale.
Il film sembrerebbe presentare le difficoltà con cui si confrontano tre ragazze palestinesi in una Tel Aviv che conferma la propria immagine spregiudicata, e forse per estensione in Israele, e la realtà dei giovani palestinesi che vi fa da sfondo, senza edulcorarla e tuttavia con toni accattivanti e leggeri da commedia. Non pretende, è ovvio, di essere un documentario né il frutto di una riflessione sociologica sul dilagante disorientamento della gioventù palestinese in Israele o a Gerusalemme Est, tuttavia alcuni dubbi sono pressanti. Ad esempio, anche nel film “La sposa di Gerusalemme”, della palestinese Sahera Dirbas, compare il tema della diffusione delle droghe tra i giovani palestinesi di Gerusalemme; ma qui, la protagonista individua la tossicodipendenza come un problema, per la cui cura propone una comunità terapeutica. Nel film di Hamoud l’uso abituale di droghe è quasi uno status simbol dell’emancipazione ed il conformismo alla subcultura della gioventù “libera” e godereccia sembra assurgere a metro della adeguatezza sociale dei Palestinesi.
A Tel Aviv ci si perde, dice un personaggio, ma le difficoltà delle ragazze del film, in realtà, sono con la propria cultura e con i suoi prodotti: i genitori di Salma che pur accettando i suoi continui rifiuti dei candidati mariti da loro proposti non accettano la sua omosessualità, il fidanzato ossessivamente osservante di Nur, il giovane regista “moderno” ma fino a che non si tratta della sua futura sposa. Sembra che da ciò vengano loro le difficoltà a confrontarsi con la città, come se loro palestinesi non siano in grado di reggerla. Ci si domanda quanto questo film sia libero dagli stereotipi. Anche il personaggio che giunge a stuprare la ragazza che dovrebbe sposare è davvero rappresentativo dei giovani ed ottusi maschi di ossessiva apparente osservanza islamica? O non è, piuttosto, frutto e conferma di uno stereotipo?
Hanno un bel dire le diverse recensioni del film che queste giovani donne mostrano i problemi con cui devono confrontarsi tutte le donne, che il maschilismo contro cui devono battersi è maschilismo di tutti i maschi. Queste sembrano gratuite generalizzazioni, non supportate da elementi presenti nel film (che non mostra uomini né donne chiaramente non palestinesi), esse rassicurano come generose “elemosine” di uguaglianza proclamata, ma non esperita dallo spettatore. Nella maggior parte delle recensioni, si percepisce un’ansia di “normalizzazione” ed il sollievo nel negare la specificità socio-politica e culturale dei personaggi, tranne che per il loro appartenere ad una cultura maschilista. Così, di tutto l’essere palestinese, ciò che resta è il maschilismo.
Ecco il punto: negare la specificità palestinese. Negare l’eredità della tragedia della nakba, dello sradicamento culturale e della dispersione sociale, dell’impossibilità o della difficoltà di ritrovarsi un ruolo paritario in uno Stato altro e discriminatorio. Così, c’è chi scrive, come Aspesi, che “finalmente non si parla di guerra né di eroi”. Chi si entusiasma nel notare che queste protagoniste “sono uguali a noi”.
Quest’ansia di negazione è palese nell’improprio titolo italiano, con il quale si danno per valori indiscussi “libertà, disobbedienza, innamoramento”, come riferimenti e mete anche per le tre palestinesi. In sintonia con questa visione, la recensione di Aspesi, che addirittura intravede (avrà una sfera di cristallo speciale) il lieto fine.
La chiave del ruolo, più o meno consapevole, giocato da questo film è da cercarsi in una più ampia battaglia culturale/ideologia: nel promuovere consenso generale per la negazione della realtà di apartheid vissuta dai Palestinesi in Israele e verso la negazione della storia palestinese. Esso converge con quanto presentato dai libri scolastici israeliani, studiati con rigore da Nurit Peled-Elhanan, autrice del libro LA PALESTINA NEI TESTI SCOLASTICI DI ISRAELE: rappresentazioni stereotipate e sgradevoli dei Palestinesi, eliminazione della narrazione palestinese della storia e della geografia del conflitto. Analoghe modifiche pare che anche l’UNRWA (Agenzia ONU per i profughi palestinesi) volesse introdurre nei libri di testo scolastici destinati ai piccoli rifugiati palestinesi, e che hanno suscitato le proteste dell’Autorità Palestinese.
“C’è un’onda nuova che muove dalle spiagge di Israele e abbatte i tabù arabo-israeliani. Cinema israeliano in lingua araba, “In Between” fa intendere la voce femminile e rimanda la società alle sue contraddizioni. Per voltare pagina, per avanzare.” Recita in evidenza la recensione di Marzia Gandolfi sul sito mymovies.
La società bersaglio è quella “arabo-israeliana” e le donne hanno la funzione di testa d’ariete.
Anche in questo c’è convergenza con il metamessaggio veicolato dai libri di testo israeliani: un confronto schiacciante per i Palestinesi. Il modello positivo illuminato dal confronto è quello israeliano.
Nella sconfitta di tutt’e tre le protagoniste del film è possibile leggere il messaggio “non siete capaci, non avete le carte, lasciate stare: siete destinate alla sconfitta”. Dopo tanto darsi da fare per inserirsi ed omologarsi nella frenetica Tel Aviv, si ritrovano ciascuna con il proprio sogno infranto, insieme sul muretto, sì, ma comunque perdenti. Il messaggio può essere esteso all’universo da cui le ragazze provengono. Hanno provato a distaccarsene, pur mantenendovi legami, ma se il loro è l’incontro con “la modernità” quest’ultima le sconfigge, perché vi sono inadeguate. E’ il loro essere “in mezzo” che è insostenibile. C’è una parte che va abbandonata e basta. Forse è tutto il loro popolo che è inadeguato.
Ma non è vero, invece, che è proprio nella disgregazione dovuta al portato della storia che dev’essere ricercata l’origine principale di questo disorientamento? Non sono queste giovani palestinesi a Tel Aviv accostabili a giovani indiane d’America che abbiano rifiutato di vivere in una riserva e si siano avventurate in una grande città canadese o statunitense? Non è forse proprio questo il nodo da sciogliere: uno sviluppo possibile della cultura palestinese, a partire dalla sua storia e dalle sue ferite?
“In between” rappresenta una realtà di disgregazione che i giovani palestinesi vivono in Israele, ma non la fa diventare un tema centrale o un problema per il quale cercare risposte, sia pur solo di percorso, che invece è e resta individuale. La comunità palestinese o è una realtà negativa, che opprime ed impedisce di “liberarsi”, o è assente. Altre prospettive sarebbero possibili. Il già citato “La sposa di Gerusalemme”, ad esempio, pur mostrandone contraddizioni familiari e sociali, fa sentire la comunità palestinese ancora viva e presente, e per questo potenziale fonte di riscatto collettivo.
Se il titolo arabo del film, “Bhar bar”, si traduce in “Tra terra e mare”, che in modo più poetico e “tangibile” rende l’idea del trovarsi tra mondi diversi, tradotto nell’ebraico “Né qui né altrove” rafforza il messaggio distruttivo per le ed i Palestinesi, quello stesso espresso dai libri scolastici israeliani.
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(di burtlancaster)
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