UZAK
Questo film del regista turco Nuri Bilge Ceylan – curatore anche della sceneggiatura e della fotografia – ha vinto il Gran Premio della critica a Cannes nel 2003 e il Premio Trieste nel 2004.
La storia è ambientata in quella che un tempo fu l’antica capitale turca, ma chi si aspettasse di vedere Istanbul rimarrebbe molto probabilmente deluso. Le riprese sono state fatte soprattutto in interni. Del resto che ci è dato di guardare non si ha una visione magica, niente segnala l’eredità di una memoria che è andata ad innestarsi in un immaginario universale fatto di templi di una severa ortodossia, insigni moschee o favolosi sultani, uomini col caffettano bianco e il fez a testimonianza di quella che fu l’antica capitale dell’Impero Ottomano, o la Costantinopoli capitale dell’Impero Romano d’Oriente, oppure, ancora, il centro di scambi commerciali internazionali solcato da agenti spionistici; quell’Istanbul, insomma, crocevia delle culture europee ed asiatiche che sembra appartenere solo ad un passato mitico tramandatoci dalla storia.
La città che si vede in Uzak è del tutto assimilabile ad una delle tante metropoli occidentali odierne, indistinguibili fra loro, più che per l’ambiente in sé - occultato, freddo, grigio -, a causa del silenzio, della tristezza e del vuoto ossessivo che sono penetrati nei suoi abitanti, resi sempre più spenti e ostili da una crisi economica evidente. La neve che ricopre all’improvviso la città, la neutralizza, la rende fantasma: forse è l’espressione del pudico desiderio del regista di viverla come in un ricordo, in un sogno. Sotto la coltre non ci sono che le automobili, le tracce della presenza industriale e dell’inurbamento, costruzioni neutre, i prefabbricati del porto; ma ci si può forse illudere che, invece, vi sia nascosto il passato di cui si diceva poco fa. Il silenzio della neve è, però, lo stesso dei protagonisti: non induce alla contemplazione, al riposo, alla visione onirica, piuttosto alla tristezza, alla fissità ossessiva, come per quella sezione di mare color cobalto che, guardata con gli occhi del protagonista principale e mostrata con una splendida fotografia, fa pensare ad una immagine vista dalla finestra di una prigione. Una piccola giungla abitata da esseri che hanno bisogno di difendere il loro ancora più piccolo territorio, marcato da una solitudine fatta di saltuarie visite notturne di prostitute e di videocassette pornografiche. Un’intimità di cui ci si vergogna e di cui si vuol essere pieni ed esclusivi padroni, soprattutto se qualcuno, scoprendola, ne metta in evidenza la miseria.
Tale è la vita di un privilegiato, un fotografo che si fa scudo della propria professione - vissuta in modo vuoto, come tutto il resto - per costruirsi una sicurezza psicologica che viene messa a soqquadro dalla visita di un cugino, giunto a Istanbul a caccia di un lavoro che non troverà mai. Quest’ultimo tenta d’insidiargli questo suo nulla, giungendo a scontrarsi ben presto con l’uggiosa acredine dell’altro.
L’ospite – è risaputo - è come il pesce, e dopo tre giorni puzza: il fotografo cosparge di deodorante le scarpe del parente, poi le chiude in uno sgabuzzino; costringe il cugino a fumare in terrazza, al freddo; lo tampina controllando che non faccia telefonate troppo lunghe, per spegnergli la luce che l’altro ha dimenticata accesa, per verificare che si stia impegnando seriamente per procurarsi l’occupazione di cui ha bisogno. Giunge a sospettarlo esplicitamente del furto di un oggetto che ritrova quasi subito, evitando però di avvisarlo di quest’ultima circostanza. Niente da fare: la puzza invade l’appartamento, anche se il parente ospite sembra non volerlo capire. Finché, all’improvviso, si decide ad andarsene, lasciando il padrone di casa di nuovo custode inosservato della propria impotente nevrosi.
Un’Istanbul, dicevamo, sempre più occidentalizzata e depressa, insomma, dove il nostro Antonioni avrebbe trovato il milieu ideale per girare il suo ciclo di film della cosiddetta incomunicabilità.
Se il materiale che ci è dato da analizzare potrebbe costituire, per quanto scritto e al di là delle motivazioni più comunemente addotte, delle ragioni sufficienti per coloro che non temono che la Turchia entri a fare parte dell’Unione Europea, ne offre, nel contempo, di altrettanto valide a quanti, invece, quell’accesso vorrebbero impedire.
Enzo Vignoli,
21 marzo 2005.
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