KHAMOSH PANI
Khamosh Pani risultò vincitore del Pardo d’oro come miglior film e di quello di bronzo per l’interpretazione femminile al festival di Locarno del 2003.
In quest’opera prima della regista pakistana Sabiha Sumar che significa Acque silenziose, il conflitto generazionale madre/figlio si allarga a divenire metafora dell’incomprensione e della lontananza che esiste fra l’ uomo e la donna. Ancora oltre, va a toccare il tasto della prevaricazione che discende dal prevalere di un fanatismo lugubre ed assolutista sull’apertura al pensiero più lieve che sgorga da una matrice culturale figlia di una tradizione più cromaticamente solare.
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KHAMOSH PANI
Khamosh Pani risultò vincitore del Pardo d’oro come miglior film e di quello di bronzo per l’interpretazione femminile al festival di Locarno del 2003.
In quest’opera prima della regista pakistana Sabiha Sumar che significa Acque silenziose, il conflitto generazionale madre/figlio si allarga a divenire metafora dell’incomprensione e della lontananza che esiste fra l’ uomo e la donna. Ancora oltre, va a toccare il tasto della prevaricazione che discende dal prevalere di un fanatismo lugubre ed assolutista sull’apertura al pensiero più lieve che sgorga da una matrice culturale figlia di una tradizione più cromaticamente solare.
Alla morte di Gandhi, nel 1947, la grande India fu divisa in due parti, il Pakistan, di religione musulmana e l’India dai confini odierni, di tradizione Sikh.
A Charkhi, piccolo centro rurale in territorio pakistano, i profughi Sikh in fuga verso l’India costrinsero molte delle loro donne a gettarsi in un pozzo, anziché correre il rischio di vederle cadere in mani musulmane. Trent’anni dopo, nel 1979, l’introduzione della legge marziale provocò la rapida trasformazione del Pakistan in uno stato islamico. Un pellegrino Sikh, in viaggio a Charkhi nel momento di questo stravolgimento, ritrova la sorella Ayesha, scampata al massacro successivo alla suddivisione territoriale. La tensione solo in parte latente fra questa donna e il figlio, che è entrato da poco nell’orbita di due integralisti islamici giunti in paese per catechizzare a tappe forzate la popolazione, si acuisce quando vengono alla luce le origini Sikh della madre. La donna vede messa a soqquadro la sua libertà interiore. Violentata nelle sue memorie, mutilata di un’identità non più segreta che la mette in insanabile contrasto con i concittadini di fede musulmana - da lei peraltro a suo tempo abbracciata senza alcun conflitto - e minato il suo ruolo di madre, Ayesha si toglie la vita gettandosi nel pozzo a cui era sfuggita tanti anni prima.
Lo scontro madre/figlio e il conseguente loro dividersi sono l’emblema della torre di Babele delle differenze etnico/religiose, delle spaccature territoriali provocate dai conflitti politico economici, di un’incomprensione fra i popoli in un mondo che rischia sempre più la dissoluzione.
Prevale in ogni caso il tema della religione vista come barriera insormontabile che separa anziché unire gli uomini, che fomenta l’odio anziché favorire l’amore, che diviene baluardo ideologico brandito per proclamare una superiorità morale che discende direttamente da un Dio che non potrà mai essere lo stesso di colui che sta dall’altra parte Fondamentale, perché esposto in maniera molto chiara, ancorché non settaria, è anche il rapporto di subordinazione della donna all’uomo, che sembra strettamente congiunta all’aspetto precedente. Da ciò può derivare una chiave interpretativa che veda la regia femminile porgere uno sguardo nostalgico, quasi profetico su un futuro oscuro che forse si potrebbe ancora evitare, se il destino del mondo fosse riposto in mani differenti da quelle che lo reggono da sempre.
Enzo Vignoli,
11 marzo 2006.
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