LA LEGGENDA DEL PIANISTA SULL'OCEANO (IT, 1998) diretto da GIUSEPPE TORNATORE. Interpretato da TIM ROTH, PRUITT TAYLOR VINCE, MéLANIE THIERRY, HEATHCOTE WILLIAMS, BILL NUNN, CLARENCE WILLIAMS III, PETER VAUGHAN, NIALL O'BRIEN, GABRIELE LAVIA, KEVIN MCNALLY
Dal monologo teatrale Novecento di Alessandro Baricco. Terminata la seconda guerra mondiale, l’ex trombettista jazz Max Thuner, originario di New Orleans, vende il suo strumento a un rigattiere, ma gli chiede di suonarlo un’ultima volta, e quando il vecchio commerciante sente le note di quella musica, estrae un disco raffazzonato che contiene una melodia identica. Ed ecco che Max gli racconta la storia di quel disco e di quelle favolose note, partendo precisamente dagli albori: nel gennaio 1900, a bordo del transatlantico Virginian, un macchinista di carnagione scura trovò un bambino abbandonato in un cesto e lo adottò, dandogli il nome "Novecento", preceduto dal suo (Danny Boodman) e da quello scritto sulla culla (T. D. Lemon). Quando il bambino compì otto anni, Danny morì dopo tre giorni di agonia in seguito a un brutto incidente, e Novecento venne accolto dagli altri membri dell’equipaggio, mettendo spesso a dura prova la pazienza carente del suscettibile capitano. Quale mestiere scelse, fra tutti quelli che si possono svolgere su una nave? Il più improbabile: suonare il pianoforte. Bambino prodigio, Novecento diventò abilissimo e conquistò rapidamente una popolarità immensa fra i passeggeri che di viaggio in viaggio salirono a bordo. Sotto lo sguardo vigile e fraterno di Max, l’uomo si aggiudicò numerose imprese considerevoli: vinse il duello che Jelly Morton, colui che inventò il jazz, ebbe l’ardire di lanciargli in gesto di sfida, incise il summenzionato LP per conto di una famosa compagnia discografica. Tra Max e Novecento fu amicizia a prima vista. Ma Novecento, sebbene avesse viaggiato per tutti gli oceani del pianeta effettuando cinquanta volte il giro del mondo a neanche 30 anni, non scese mai a terra perché sosteneva che, in quelle moltitudini di strade che sono le città, si srotoli una tastiera infinita nella quale lui non poteva suonare la sua musica (e quindi, in senso concreto, neanche vivere o decidere il modo di morire). Un pomeriggio di primavera tentò la grande impresa di sua spontanea volontà, ma, al porto di New York, non terminò di scendere la scaletta e ritornò su. Max abbandonò il lavoro di musicista di crociera nel 1933, e ora cerca di far scendere il migliore amico che non vede da tempo immemorabile dal Virginian prima che ne venga ordinata l’esplosione mediante dinamite, data la sua età alquanto vetusta. Novecento sceglie di rimanere, andando incontro al destino cui s’era già preparato da anni. Un’elevatissima qualità tecnica a livello di riprese e un sistema di immagini dai colori meravigliosi sono al servizio di una storia originale e commovente davanti alla quale nemmeno i più insensibili possono restare indifferenti, per quanto colpisce diretta al cuore col discorso molteplicemente rinnovato dell’artista talentuoso (del fenomeno che vive per la sua arte) che s’impegna per dare un significato a quanto fa, riuscendovi alla fine della vita. Quando si guardano le sequenze, si rimane ammaliati dalla sua voglia di comunicare allo spettatore il linguaggio con cui la musica parla agli esseri umani, inteso soprattutto quale mezzo con cui veicolare la pace interiore, messaggi di serenità, disinteresse per gli aspetti materiali e superamento delle grettezze e meschinità che albergano nell’animo degli impuri. Novecento è un artista che sa leggere le persone provenienti dal mondo pur senza avendolo mai visto: procede così pure quando suona, elaborando soavi melodie che nessun altro potrebbe inventarsi sul momento, e fa del suo modus operandi un magazzino dentro cui raccogliere i segreti più reconditi di donne e uomini che non possono nasconderli al suo sguardo meditabondo e introverso e perciò più esatto che mai. Non a caso, sulla nave è adorato fin dalla tenera età e preso in simpatia tanto dai passeggeri benestanti quanto da quelli in terza classe, e lui esegue brani musicali per entrambe le categorie senza la minima discriminazione. Insomma, un individuo scevro da qualunque macchia che conosce la verità delle piccole e grandi cose perché le indaga approfonditamente con l’occhio di un amante della natura umana. Il film di Tornatore assume dunque anche una posizione di curiosità per quel che concerne lo sviluppo del desiderio umano di arricchirsi moralmente. Quanto alle interpretazioni, ce n’è una più strabiliante dell’altra: non funziona solo il personaggio malinconico e introverso di Roth in un ruolo per lui insolito, ma anche il trombettista di Taylor Vince, la ragazza della Thierry, l’esuberante macchinista di Nunn, l’arrogante e borioso Jelly Morton di Williams III, il proprietario del bazar di Vaughan e lo struggente contadino friulano di G. Lavia stupiscono per l’eccelsa intensità recitativa e creano attorno al protagonista un insieme di comicità drammatica che va veloce come un treno, senza arrestarsi ai cambi di tono giacché non si ravvisa nessuna caduta di ritmo. Un racconto efficace che organizza la materia narrativa come l’architettura dei movimenti d’una superba sinfonia, tutto per merito degli sceneggiatori e di Tornatore (il più americano fra i registi italiani), che permea del suo inconfondibile tocco magistrale quest’opera, capace di rivaleggiare con Nuovo Cinema Paradiso (1988) per la perfezione lirica e poetica. Magnifiche musiche di Ennio Morricone.
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