E’ un film scarno, icastico, in cui i dialoghi sono ridotti all’osso, la scenografia è fatta di poche cose, il bancone di un bar, l’interno di una bottega o di una povera casa, i personaggi sono quasi sempre taciturni, la loro gestualità è minima, l’espressione dei loro visi è essenziale.
La rabbia, la gioia, i sentimenti sono un lusso per uomini e donne, inselvatichiti da una vita misera, che sembra facciano fatica anche ad indossare la maschera della quotidiana rassegnazione di esistere.
La cinepresa indugia sugli uomini inquadrandoli spesso dalla vita in giù, come se i corpi non avessero volti, come se fossero privi di anima, assimilati alle bestie.
La ragazza, come il fagiano che di dibatte per liberarsi dal lacciuolo rudimentale e più si agita e più si impicca da solo, come la lepre che fugge a zig zag cercando invano scampo al fuoco incrociato dei fucili da caccia, ha il destino già segnato.
In primo piano la vita corale dei miserabili abitanti, ammutoliti dalla loro stessa condizione primordiale, di un piccolo paese in una campagna arida che non offre lavoro a tutti, dove le case sono poco più che stamberghe, in qualche caso anche meno accoglienti del capanno di fortuna del cacciatore di frodo.
Mouchette è lì, piovuta da un altro mondo, angelo ribelle castigato da Dio e dagli uomini, quando canta, anche se stona, incanta con un fil di voce celestiale, per letto ha una stuoia, un giaciglio per animali, ai piedi calza duri zoccoli di legno e per veste indossa uno straccio, contrabbandieri di alcol il padre violento ed il fratello maggiore, assiste la madre, immobilizzata nel letto da un male senza nome, ed il fratellino, ancora un neonato, che piange ininterrottamente come se sapesse già cosa lo attende.
Bresson, come i maestri del neorealismo, prende gli attori dalla strada, essi non recitano, sono probabilmente soltanto sé stessi. Sullo sfondo, una storia d’amore appena accennata tra il bracconiere e la giovane barista, con il terzo incomodo, il guardiacaccia anziano, lo spasimante geloso, che, aizzato da un anonimo avventore del bar, giura di fargliela pagare al contendente più giovane. Tutto accade nel giorno di festa, quando le giostre sembrano dar tregua alla dura fatica di vivere. Ma la pausa è soltanto per gli uomini, che come galletti in abito buono si provocano a vicenda. E’ un mondo arcaico, violento e patriarcale, dove gli uomini sono poveri cristi, i vinti di Malavoglia, che sfogano le loro frustrazioni sulle donne, sembrando tutti in tacita combutta. Infatti, al di là della farsa dei ruoli, i poliziotti chiudono un occhio sul malaffare dei contrabbandieri, il guardacaccia e il bracconiere si minacciano di morte per poi finire ad ubriacarsi insieme.
Nella lunga sequenza delle macchine dell’autoscontro, tutto quello che resta di bello della breve vita di Mouchette, l’incontro casuale con un ragazzo, l’unico personaggio dal volto aperto e sorridente in tutta la pellicola, quasi il sogno ad occhi aperti di una vita diversa, forse soltanto un’illusione, comunque subito interrotto dagli schiaffi del padre che la riportano alla realtà.
La creatura ha già compreso, l’ignoranza non è un ostacolo all’intuizione, non c’è via di uscita, il mondo è una prigione e l’aspettativa è soltanto il dolore, la passione di un Cristo in croce, come quella di sua madre sofferente nel letto di morte, la madre in cui forse rivede se stessa in un futuro che le si annuncia imminente, già predata della sua innocenza. Spoiler…
Potente la sequenza finale, che rivela la drammaticità della situazione soltanto dopo i primi due tentativi di suicidio, che all’inizio, ambiguamente, possono sembrare il gioco innocente di una ragazzina che si lascia rotolare giù da una piccola china verso il laghetto con indosso il vestito nuovo, un sottile velo di principessa che l’avvolge per l’ultima volta, forse sognante la vita che non le è stata concessa.
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