monia raffi
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martedì 25 agosto 2009
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la società dei consumi
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Mon Oncle è un film davvero intelligente. Trova la sua forza in una forma allegra e coinvolgente, e allo stesso tempo solleva uno dei problemi che con il passare degli anni ha assunto toni tutt’altro che ilari: la profonda stupidità che dilaga nella società dei consumi.
La trama del film è incentrata sulla contrapposizione di due mondi nella medesima città che è, già in sé, immagine di tutti quei luoghi che prima di essere divorati dal cemento vivevano ancora a metà tra passato e futuro. Nel quartiere nuovo vivono i coniugi Arpel mentre Monsieur Hulot vive nella parte vecchia. Come filo conduttore tra i due mondi troviamo il piccolo Gérard, figlio degli Arpel, che alla vita moderna dei genitori preferisce di gran lunga quella di Hulot, suo zio.
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Mon Oncle è un film davvero intelligente. Trova la sua forza in una forma allegra e coinvolgente, e allo stesso tempo solleva uno dei problemi che con il passare degli anni ha assunto toni tutt’altro che ilari: la profonda stupidità che dilaga nella società dei consumi.
La trama del film è incentrata sulla contrapposizione di due mondi nella medesima città che è, già in sé, immagine di tutti quei luoghi che prima di essere divorati dal cemento vivevano ancora a metà tra passato e futuro. Nel quartiere nuovo vivono i coniugi Arpel mentre Monsieur Hulot vive nella parte vecchia. Come filo conduttore tra i due mondi troviamo il piccolo Gérard, figlio degli Arpel, che alla vita moderna dei genitori preferisce di gran lunga quella di Hulot, suo zio.
Il film non procede con una narrazione vera e propria, si costruisce mano a mano nel susseguirsi di episodi che hanno come punto di riferimento la figura di Hulot, che costituisce il centro dell’azione. Monsieur Hulot, interpretato dallo stesso Jacques Tati è un personaggio che affonda le sue radici nella grande tradizione del comico ai tempi del muto: le connotazioni fisiche che lo rendono immediatamente riconoscibile (l’impermeabile, l’ombrello, il cappello e la pipa), la marcata gestualità, il rapporto comico che s’ instaura tra l’uomo e lo spazio e la quasi totale mancanza dell’espressione verbale.
Monsieur Hulot è una figura stramba e sognante; il suo mondo ideale non è quello della modernità, ma quello dal sapore antico del quartiere caloroso e pittoresco in cui vive. Le case vecchie, la piazza sempre animata da un’umanità varia e chiassosa che vive avvolta nella luce e nella musica. Tuttavia Hulot è legato tramite la sorella al mondo moderno, ed è proprio in questo mondo estremamente preciso pulito e ordinato tanto da sembrare finto che Tati ambienterà i vari ed esilaranti siparietti. L’azione si spiega nell’attenzione che il regista volge ai gesti banali e ai riti quotidiani degli abitanti della parte nuova. Tati sottolinea attraverso l’ironia come tutto ciò che la modernità proponeva per migliorare lo stile di vita può ribellarsi contro i suoi beneficiari rendendoli buffe caricature di se stessi (splendide le sequenze in giardino dove nessuno sa dove può mettere i piedi).
Il bersaglio preferito di Tati è la piccola borghesia consumista che in Europa si stava sviluppando proprio alla fine degli anni cinquanta. Il regista ebbe una lungimiranza invidiabile nel descriverne i lati negativi in un periodo in cui si credeva che la modernità potesse provvedere a tutto. E fu ancora più acuto nel rivolgere l’attenzione non tanto all’alienazione dell’uomo nella società moderna (Monsieur Hulot in fondo non cerca un posto in quella società né soffre perché non vi appartiene) quanto alla stupidità di chi invece nella corsa al nuovo crede talmente tanto da non accorgersi che ne diventa vittima; gli Arpel, parafrasando qualcuno che di consumismo se ne intendeva, non fanno altro che comprare la corda alla quale impiccarsi.
Ma a differenza del successivo epico Playtime, dove il passato è stato definitivamente divorato dal falso progresso e dove del vecchio non rimarrà che un timido ricordo nella fioraia all’angolo della strada, in Mon Oncle la visione di Tati è ancora nostalgica: il regista volge uno sguardo di speranza a quel passato che amato dai sognatori, dai bambini e dai cani potrebbe ancora salvarci.
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massimiliano curzi
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mercoledì 19 gennaio 2011
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i sogni di un bambino non muoiono mai
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Il film più poetico di Tati, in cui l'autore si svincola almeno in parte dal comico di osservazione che aveva caratterizzato la sua opera d'esordio (Giorno di festa): la contrapposizione tra declino della provincia francese e contemporanea ascesa dell'assetto metropolitano con il suo crescente catalogo di rumori, di convenzioni e di regole asettiche è indubbiamente drastica, ma Tati esprime al meglio i contenuti del film nella concisa sequenza finale in cui la partenza del vecchio zio - scapolo, inadatto a lavorare in fabbrica e nostalgico oltremisura: come dire, un uomo ormai fuori dal tempo - anziché gettare il nipote nello sconforto diventa l'occasione per un nuovo scherzo, sia pur involontario, della stessa tempra degli scherzi che i monelli del borgo allestivano ai danni di malcapitati passanti.
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Il film più poetico di Tati, in cui l'autore si svincola almeno in parte dal comico di osservazione che aveva caratterizzato la sua opera d'esordio (Giorno di festa): la contrapposizione tra declino della provincia francese e contemporanea ascesa dell'assetto metropolitano con il suo crescente catalogo di rumori, di convenzioni e di regole asettiche è indubbiamente drastica, ma Tati esprime al meglio i contenuti del film nella concisa sequenza finale in cui la partenza del vecchio zio - scapolo, inadatto a lavorare in fabbrica e nostalgico oltremisura: come dire, un uomo ormai fuori dal tempo - anziché gettare il nipote nello sconforto diventa l'occasione per un nuovo scherzo, sia pur involontario, della stessa tempra degli scherzi che i monelli del borgo allestivano ai danni di malcapitati passanti. E proprio questo fatto casuale aggrega briciole di complicità tra padre e figlio, dai due universi incomunicabili nei quali sembravano confinati: da qui avrà probabilmente inizio un nuovo sogno.
Malgrado si manchi spesso di sottolinearlo, Jacques Tati ha formato generazioni di registi, alcuni dei quali di recente affermazione: ad esempio, è difficile guardare con attenzione un film come "Giù al nord" e non ritrovare, dietro le erratiche disavventure in bicicletta del postino locale, l'ombra del protagonista di "Jour de fete", altrettanto semplice è ritrovare nell'angolo di provincia de "Il piccolo Nicolas e i suoi genitori" la stralunata dimensione familiare che catapulta l'animo infantile dalla soglia di casa al mondo dello spettacolo. Fino a chiudere con il recentissimo omaggio che gli ha reso Chomet nel regno dell'animazione, con il suggestivo "L'illusionista" (2010). Mentre ai comici attuali che si attardano con il comico di parola dietro l'inevitabile corredo di intraducibilità che esso comporta, andrebbe ricordato con quanta maestria Tati sapeva conquistare la mente e lo sguardo attraverso il comico di situazione.
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luca scial�
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martedì 7 luglio 2015
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satira pungente contro borghesia e modernità
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Attraverso le sue divertentissime pellicole, Jacque Tati irrideva la borghesia e in questo caso anche la modernità. Quella che, invece di rendere più semplice, pratica e comoda la vita degli esseri umani, paradossalmente la complica.
Qui racconta la storia di una famigliola borghese francese, col capo famiglia proprietario di una fabbrica di plastica, nella quale produce arredamenti ed elettrodomestici. Molti dei quali usati in casa sua. Molto preso dal lavoro e con la moglie divisa tra le faccende domestiche e le vicine, finiscono per trascurare il figlio. Che trova affetto e divertimento nello sgangherato zio, Hulot. Il quale è invece agli antipodi della conformità e della modernità.
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Attraverso le sue divertentissime pellicole, Jacque Tati irrideva la borghesia e in questo caso anche la modernità. Quella che, invece di rendere più semplice, pratica e comoda la vita degli esseri umani, paradossalmente la complica.
Qui racconta la storia di una famigliola borghese francese, col capo famiglia proprietario di una fabbrica di plastica, nella quale produce arredamenti ed elettrodomestici. Molti dei quali usati in casa sua. Molto preso dal lavoro e con la moglie divisa tra le faccende domestiche e le vicine, finiscono per trascurare il figlio. Che trova affetto e divertimento nello sgangherato zio, Hulot. Il quale è invece agli antipodi della conformità e della modernità. Ma alla fine sarà proprio grazie a lui che padre e figlio si ricongiungeranno.
Pellicola divertentissima con una serie di gag una dietro l'altra. Ma anche con una morale.
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efrem
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sabato 1 agosto 2020
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mio zio
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Mio zio è la satira più surreale di Tati. Un film diviso a metà: una è la casa degli Arpel, posto asettico e ultramoderno; l'altra è il calore del quartiere popolare di Monsieur Hulot. Un film veramente avanti e intelligente nel suo descrivere il cambiamento della società.
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carloalberto
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mercoledì 30 dicembre 2020
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non è poetico come il primo hulot
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Jacques Tati con Mon Oncle del 1958 fa un passo indietro rispetto al bellissimo Le vacanze di Monsieur Hulot del '53, guadagna un Oscar e perde in poesia e spontaneità.
La figura stilizzata, che somiglia tanto al nostro Signor Bonaventura, e la caratteristica andatura saltellante del personaggio di Tati restano immutate da un film all’altro, ma l’incantesimo si è rotto ed Hulot non è più l’omino magico che trasforma inconsapevolmente, con un’innocenza quasi infantile, il quotidiano tran tran del monotono e tranquillo stile di vita borghese in una fiaba divertente e surreale.
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Jacques Tati con Mon Oncle del 1958 fa un passo indietro rispetto al bellissimo Le vacanze di Monsieur Hulot del '53, guadagna un Oscar e perde in poesia e spontaneità.
La figura stilizzata, che somiglia tanto al nostro Signor Bonaventura, e la caratteristica andatura saltellante del personaggio di Tati restano immutate da un film all’altro, ma l’incantesimo si è rotto ed Hulot non è più l’omino magico che trasforma inconsapevolmente, con un’innocenza quasi infantile, il quotidiano tran tran del monotono e tranquillo stile di vita borghese in una fiaba divertente e surreale.Il tono è piuttosto quello della favola esopica del topo di città e del topo di campagna e la morale del film, direi alquanto banale, si può riassumere nella necessità di riscoprire, al di là delle fascinazioni della modernità e del vivere ordinato ed irreggimentato della borghesia, i valori importanti della vita, l’amore e l’amicizia, attraverso il gioco e la fantasia imitando la spensieratezza dei bambini, metaforicamente traslati nei quattro simpatici cagnetti randagi che gironzolano per le vie della città e che suggestivamente aprono e chiudono il film.
L’artificiosità della costruzione teoretica sottrae leggerezza e disincanto al racconto e va a scapito anche delle scenette comiche, che non hanno più la vivacità e la freschezza del primo Hulot a parte qualche gag irresistibile, a cui si deve essere ispirato Atkinson per il suo Mr Bean.
La messa alla berlina del perbenismo ipocrita della società borghese risulta più diretta e, a mio avviso, meno efficace proprio per questo, di quella che permeava sottilmente Le vacanze di Monsieur Hulot.
Nella scena ambientata in una fabbrica di tubi di plastica Tati, nella veste di Hulot operaio, giunge con più di vent’anni di ritardo a denunciare il predominio della macchina sull’uomo, rifacendo il verso, senza tuttavia averne la stessa potenza tragicomica, a Charlot nella famosa sequenza di Tempi moderni di Chaplin del 1936.
Il finale appare come uno scontato corollario del teorema, dimostrato su celluloide invece che alla lavagna. Quando il borghesuccio diligente e produttivo dirigente di azienda e padre noiosamente severo, alla partenza dello strampalato cognato, con la complicità del figlio si presta ad uno scherzo ai danni di un malcapitato passante e poi imbocca una strada contromano, è come se fosse stato, in qualche modo, infettato dalla giocosa allegria, un po’ anarcoide, di Hulot e avesse ritrovato grazie a lui la propria umanità e lo spirito giusto per far rivivere i valori tradizionali, non rinunciando alle mille comodità della civiltà tecnologica ed al benessere della società consumista, che in quel momento aveva il suo boom economico in Europa, sulla scia della corazzata capitalista americana. Quindi, da quel momento, vissero tutti felici e contenti. E’ chiaro che, dopo una bonaria ed innocua critica dello stile di vita della classe borghese, si è cercato anche il lieto fine, come da sempre piace a Hollywood e guarda caso nel 1959 Mon oncle ebbe l’Oscar quale migliore film straniero.
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abramo rizzardo
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sabato 8 gennaio 2022
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quando le varie arti si incontrano
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L'origine di ogni commedia di culto, l'origine del celebre personaggio di Mr. Bean, e l'origine di una risata condita con il dramma, talmente universale da non aver bisogno del linguaggio parlato, ma solo di fischi, di goffaggine, e di spazi architettonici che scrutano nell'oscurità, proprio come un KGB, e di uno strano ometto: stiamo parlando ovviamente di Monsieur Hulot, personaggio inventato dallo storico cineasta e poliedrico artista Jacquest Tatunloffe ( nome d'arte Tati ).
Nel 1958 esce Mon Oncle, che vince lo stesso anno a Cannes il Premio della Giuria, e l'anno successivo l'Oscar come Miglior Film Straniero: non sono i premi a fare la storia per questa pellicola, ma la sua genialità genuina, a primo impatto spontanea ( ma studiatissima ), e che condensa perfettamente l'architettura con il Cinema, creando ponti suggestivi fra le varie arti ( da qui prenderà spunto Bong Joon-Ho per Parasite, che nel ricreare la villa dei Park attingerà al simbolismo architettonico per crearci una storia corale attorno ).
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L'origine di ogni commedia di culto, l'origine del celebre personaggio di Mr. Bean, e l'origine di una risata condita con il dramma, talmente universale da non aver bisogno del linguaggio parlato, ma solo di fischi, di goffaggine, e di spazi architettonici che scrutano nell'oscurità, proprio come un KGB, e di uno strano ometto: stiamo parlando ovviamente di Monsieur Hulot, personaggio inventato dallo storico cineasta e poliedrico artista Jacquest Tatunloffe ( nome d'arte Tati ).
Nel 1958 esce Mon Oncle, che vince lo stesso anno a Cannes il Premio della Giuria, e l'anno successivo l'Oscar come Miglior Film Straniero: non sono i premi a fare la storia per questa pellicola, ma la sua genialità genuina, a primo impatto spontanea ( ma studiatissima ), e che condensa perfettamente l'architettura con il Cinema, creando ponti suggestivi fra le varie arti ( da qui prenderà spunto Bong Joon-Ho per Parasite, che nel ricreare la villa dei Park attingerà al simbolismo architettonico per crearci una storia corale attorno ).
La storia si svolge in Francia, negli anni '50, in un mondo dove la modernità è lì davanti, oltre il muretto devastato e cadente a pezzi: è dunque la monomania della routine schizofrenica, la delirante voglia di moderno, che caratterizzano la cornice della famiglia Arpel, vivente appunto “ nell'agio ” di questi nuovi spazi architettonici, che Tati critica tanto.
Hulot d'altro canto, fratello di colei che è sposata con il patriarca dell'agiata famiglia, vive nell'improvvisazione, nel caso, nella risata e tra le persone: il film gioca su questi due presupposti, che rispecchiati sono le due facce della medaglia di una qualsiasi società.
È la casa degli Arpel che diverrà teatro di vere e proprie grosse risate, spontanee, dove persino le sedie non sembrano tali, le fontane spuntano da dove vogliono, avendo inoltre una funzione suggestiva di accoglienza, e le persone, nell'architettura, vanno incontro a diverse difficoltà comunicative ( memorabile la sequenza delle due amiche che per incontrarsi devono passeggiare lungo il serpentato sentiero, e qui, sembrano parlare da sole, mentre si vengono incontro ).
In Parasite abbiamo una cantina, ovvero la casa della famiglia di Kim, che rivela esplicitamente il loro status sociale: più avanti entriamo con un magnifico piano sequenza nella casa della famiglia Park, che si rivela aventi quattro piani: una cantina che descrive la sfumatura tra il mondo borghese e la povertà, il seminterrato, che diventa rifugio per gli emarginati, il primo e secondo piano, status sociale che si mostra in tutta la sua “ bellezza borghese e superficiale ”; veri parassiti della società, che non permettono l'equità o perlomeno una vita dignitosa a tutti; in Mon Oncle abbiamo la casa di Hulot che diventa circo e perno di tutti gli accadimenti più bizzarri e umani di sempre ( un mondo però che sta venendo purtroppo dimenticato ): il cane che osserva il pesce sottobanco e grugnisce, il netturbino che non fa il suo lavoro perché si ferma sempre a parlare con chiunque, o ancora, il gruppo di ragazzini che tra una frittella e l'altra fischia ai passanti giocosamente, facendoli voltare per poi sbattere contro un palo della luce non visto dinanzi.
È la casa borghese poi che diventa il centro di una festa destinata ad entrare nella Storia del Cinema: se prima era la casa delle regole ferree, della rigidità, della compostezza etc...ora diventa una villa dove le marionette vagano da un posto all'altro in cerca di un posto tranquillo; ci si immerge nel terreno per aggiustare una fontana sociale, e si parla di affari anche nelle feste “ La quota si è alzata del trenta per cento ” come se fosse un argomento di discutere ad un party, e risponde una a cui non gliene può fregare di meno: “ Formidabile! ”.
Già dall'inizio della pellicola, incontriamo piccole rivoluzioni cinematografiche: i titoli di testa dipinti sui muri, e le personalità a cui hanno lavorato alla lavorazione del film scritte sui cartelli stradali; poco dopo ci rendiamo conto che l'intero linguaggio cinematografico è stato rivoluzionato con questa pellicola, capace di generare risate che riescono ad oltrepassare la temuta barriera del tempo.
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