francesco2
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domenica 11 luglio 2010
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la pecorella della steppa
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Di fronte a certo cinema, ostico per noi occidentali, si sono visti negli ultimi venti(circa)anni due tipi (Ma non sempre) di atteggiamenti. Indifferenza da parte del grande pubblico, divisioni nella critica. Se alcuni vedevano questi tempi dilatati e-Soprattutto- queste storie insolite come alternativa al film hollywoodiano, altri- Forse non molti, per la verità- hanno cominciato a parlare di mattoni sonnolenti quando non incomprensibili. Quest'ultimo atteggiamento, come ha rilevato qualcuno, non fa onore a un critico, la cui funzione dovrebbe essere hiarire allo spettatore o spettatrice ciò che lui eventualmente non capisce.
Di fronte a film come "Tulpan", problemi come quelli accennati vengono amplificati dall'assenza (Ma è davvero così?.
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Di fronte a certo cinema, ostico per noi occidentali, si sono visti negli ultimi venti(circa)anni due tipi (Ma non sempre) di atteggiamenti. Indifferenza da parte del grande pubblico, divisioni nella critica. Se alcuni vedevano questi tempi dilatati e-Soprattutto- queste storie insolite come alternativa al film hollywoodiano, altri- Forse non molti, per la verità- hanno cominciato a parlare di mattoni sonnolenti quando non incomprensibili. Quest'ultimo atteggiamento, come ha rilevato qualcuno, non fa onore a un critico, la cui funzione dovrebbe essere hiarire allo spettatore o spettatrice ciò che lui eventualmente non capisce.
Di fronte a film come "Tulpan", problemi come quelli accennati vengono amplificati dall'assenza (Ma è davvero così?...) di una "Storia": un rimprovero mosso - Forse non sempre a ragione- a certo Kiarostam^, quando in "Sotto gli ulivi" si LIMITAVA(!) a descrivere la lavoraione di un film. In realtà le scene di "Tulpan", se potrebbero richiamare per l'argomento "Urga" di Mikhalkov, potrebbero suggerire paragoni con lo stile dilatato di un "Tropical Malady" o con lo stesso Kiarostamì, data la quantità di scene che (A volte con efficacia) suggeriscono il lento scorrere della natura. Il racconto vero e proprio, forse, è un pò esile, al di là di momenti arguti come quello dei ragazzi che sfogliano la rivista sui divi occidentali o del bambino che ascolta la radio. Però, ecco,nel delineare questi caratteri manca la malizia che in "Ju dou" fa trasformare a Zhang Yimou un bambino in un piccolo killer: quasi dei "Brutti sen'anima" queste figure, dal padre che accetta con fatica il cognato appena arrivato dala marina , alla moglie agli altri.
Più curioso, piuttosto, è l'amore che il giovane vive con la misteriosa(in tutti sensi) Tulpan: in un vecchio film indiano, "Mathilukal", un detenuto intavolava una storia d'amore dietro le sbarre. Qui non si arriva a quei livelli, ma il protagonista (E' una lettura) sembra vivere di sogni, dalla marina andata male a un amore quasi virtuale, come se la realtà concreta rappresentasse uno scontro quotidiano che più che rafforzarlo lo fa persistere nella sua apatia. E-Ancora!- i richiami fuori campo della madre della ragazza richiamano il Kiarostamì di "Dieci".
Quando però- Ancora una lettura personale- il giovane partecipa di un gesto naturale- in tutti sensi- come il parto della pecorella, è come se la vita avesse acquisito un altro significato, anche perché nel frattempo termina il suo rapporto quasi- virtuale con "Tulpan". E 'dunque tempo di maturare e compiere- Forse- dolorose rinunce, nel momento in cui cominciamo a credere in noi stessi come adulti.
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martedì 3 novembre 2009
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steppa da festival.
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Tulpan racconta la vita dei pastori kazaki, padroni e prigionieri del deserto, mentre cercano moglie (la sfuggente Tulpan, che non ama le orecchie a sventola del protagonista e aspirante marito), affrontano un’inattesa mortalità delle pecore, intonano con voce acuta canti tradizionali, sognano il mare. Tutto è ruvido, nel deserto kazako, la sabbia mossa dal vento in improvvisi mulinelli, che va a insinuarsi nel vello delle pecore, che sicuramente darà maglioni kazaki a loro volta maledettamente ruvidi. L’erba della steppa è sbiadita e pungente, le balle di fieno polverose, e quel che c’è da mangiare è inevitabilmente formaggio di pecora. Non è precisamente un film kazako, Tulpan, quanto piuttosto un film kazako per i festival internazionali, e possibilmente per il mercato estero.
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Tulpan racconta la vita dei pastori kazaki, padroni e prigionieri del deserto, mentre cercano moglie (la sfuggente Tulpan, che non ama le orecchie a sventola del protagonista e aspirante marito), affrontano un’inattesa mortalità delle pecore, intonano con voce acuta canti tradizionali, sognano il mare. Tutto è ruvido, nel deserto kazako, la sabbia mossa dal vento in improvvisi mulinelli, che va a insinuarsi nel vello delle pecore, che sicuramente darà maglioni kazaki a loro volta maledettamente ruvidi. L’erba della steppa è sbiadita e pungente, le balle di fieno polverose, e quel che c’è da mangiare è inevitabilmente formaggio di pecora. Non è precisamente un film kazako, Tulpan, quanto piuttosto un film kazako per i festival internazionali, e possibilmente per il mercato estero. Dove può piacere, questa storia senza guizzi che si interroga sbrigativamente sull’opportunità di restare nella steppa o cercare fortuna in città, e si dilunga sui dettagli di una pecora che sgrava, e un agnello a cui va fatta la respirazione bocca a bocca. La scena più forte del film è, per molti, un evento solito e naturale, mentre il regista, bravo a mostrare la sua terra, i suoi colori e le sue piccole vicende, sa che per noi non è così. slowfilm.splinder.com
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gabrjack
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mercoledì 26 agosto 2009
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non è un documentario
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nonostante l'assenza di colonna sonora è un film a tutti gli effetti con una storia d'amore mancata e un'altra per la propria terra e per la vita nomade del pastore pienamente ricambiata. Originale
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olgadik
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venerdì 22 maggio 2009
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nomadi si nasce e si rimane
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Si tratta del lavoro di un giovane regista kazako, proveniente da esperienze di documentari ma che mostra di sapersi districare bene nel ritmo e nella costruzione di una serie di quadri, creando una storia che è compatta più di quanto non sembri. Tale organicità deriva da due fattori. Uno, già detto, è l’abile costruzione narrativa, l’altro è la reale simbiosi dei vari protagonisti del racconto. In esso infatti esseri umani, paesaggio, animali, sono legati tutt’uno in una società di tipo patriarcale dalla necessità di sopravvivere, con la quale non si può scherzare troppo. In società pastorali attorniate da una natura ostile e nuda quale una steppa desertica, soggetta a trombe d’aria e polvere che tolgono il respiro, il pastore deve necessariamente avere un carattere forte e duro nonché esperienza.
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Si tratta del lavoro di un giovane regista kazako, proveniente da esperienze di documentari ma che mostra di sapersi districare bene nel ritmo e nella costruzione di una serie di quadri, creando una storia che è compatta più di quanto non sembri. Tale organicità deriva da due fattori. Uno, già detto, è l’abile costruzione narrativa, l’altro è la reale simbiosi dei vari protagonisti del racconto. In esso infatti esseri umani, paesaggio, animali, sono legati tutt’uno in una società di tipo patriarcale dalla necessità di sopravvivere, con la quale non si può scherzare troppo. In società pastorali attorniate da una natura ostile e nuda quale una steppa desertica, soggetta a trombe d’aria e polvere che tolgono il respiro, il pastore deve necessariamente avere un carattere forte e duro nonché esperienza. Ma per esserlo è indispensabile la materia prima, cioè le pecore; per avere degli animali con i quali cominciare l’attività, bisogna sposarsi. E qui incontriamo Asa, il protagonista. Lui la moglie non solo non ce l’ha ma è stato rifiutato per le sue orecchie a sventola dall’unica sposa possibile a cui si è proposto come marito. L’accoglienza tiepida dei suoceri è niente rispetto al duro giudizio di Tulpan (Tulipano), la ragazza che non si vedrà mai se non seminascosta. Eppure, fa notare l’amico Boni ad Asa, Carlo d’Inghilterra è anche più fornito di lui di orecchie a paracarro. Il giovane comunque non disarma e cerca di apprendere dal ruvidissimo cognato i segreti del mestiere, ma gli riesce difficile, perché è un sognatore e si è innamorato di quella fanciulla che non conosce. Intanto i giorni scorrono e l’unico cambiamento è una moria di pecore e agnellini dovuta al cibo sempre più scarso. Così ha sentenziato il veterinario del luogo, personaggio esilarante con il suo sidecar che serve da mezzo di trasporto agli animali in cura, cammelli compresi. Si rende quindi necessario cambiare posto, smontare la jurta (tenda mobile kazaka) e andare col gregge, i cani, i cammelli, la famiglia numerosa, da qualche altra parte. Si viene a sapere intanto che Tulpan è andata in città per studiare e il nostro Asa che farà? Non lo dico, ma lo si può indovinare se avete compreso che si tratta di un sognatore un po’ tradizionalista e che ha vissuto da poco l’intensa esperienza di far nascere un agnellino riottoso. Siamo di fronte, come si è capito, a una favola realistica, di una evidenza semplice ma forte, tanto che quasi si sente la puzza delle bestie e si respira la sabbia portata dal vento. Ma l’opera è anche un invito a riscoprire il nesso strettissimo tra natura, sopravvivenza, gioco (vedi i bambini uguali a quelli di tutto il mondo), ferocia del clima e durezza delle relazioni, tutti elementi che tengono uniti i membri di questa realtà estrema. Non è un film per stomaci delicati come il mio, ma è senz’altro un discorso poetico con alcune sequenze indimenticabili.
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francesca meneghetti
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lunedì 4 maggio 2009
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canto diurno di un pastore errante dell'asia
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Non vada a vedere questo film chi adora il cinema, che potemmo definire “futurista”, pieno di ritmo, velocità, azione, colonne sonore rutilanti. E nemmeno chi pensa alla natura come uno scenario idilliaco e riposante. E nemmeno chi è delicato di stomaco, igienista, amante dei profumi (artificiali). Per scoraggiare ulteriormente gli spettatori incauti, è bene aggiungere che dovranno assistere a due parti veri,di pecore, e alla rianimazione degli agnellini (che naturalmente non hanno il pelo riccioluto e candido come nell’iconografia pasquale) con un bocca a bocca.
Detto questo, restano gli avventurosi. Quelli che davvero possono assecondare “un certain regard”, come recita il premio che questo film ha ottenuto a Cannes.
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Non vada a vedere questo film chi adora il cinema, che potemmo definire “futurista”, pieno di ritmo, velocità, azione, colonne sonore rutilanti. E nemmeno chi pensa alla natura come uno scenario idilliaco e riposante. E nemmeno chi è delicato di stomaco, igienista, amante dei profumi (artificiali). Per scoraggiare ulteriormente gli spettatori incauti, è bene aggiungere che dovranno assistere a due parti veri,di pecore, e alla rianimazione degli agnellini (che naturalmente non hanno il pelo riccioluto e candido come nell’iconografia pasquale) con un bocca a bocca.
Detto questo, restano gli avventurosi. Quelli che davvero possono assecondare “un certain regard”, come recita il premio che questo film ha ottenuto a Cannes. Disposti a sciogliersi per 100 minuti dagli ancoraggi spazio-temporali dell’età attuali e immergersi in un mondo primitivo, fuori della storia. Che si affaccia timidamente solo attraverso alcuni elementi di modernità: una foto, non recente, del principe di Galles, tratta da una rivista, che abbonda di grosse tette; una radio, che sembra riferirsi ad un mondo ancora sovietico (prima dell’ ’89?); il riferimento ai pannelli solari.
Per il resto, il film narra uno scorcio di vita di una famiglia di pastori nomadi kazaki, la cui vita ruota, senza orologi, attorno ad una iurta, una grande tenda, che ha il suo angelo custode nella donna, forse nemmeno mai nominata, che è sorella di Asa, il protagonista, e moglie di Ondas, capo-famiglia, e che cura con allegria e dolcezza tre bambini, sperando solo di spostare la tenda in un posto migliore. Fuori, la steppa, arida, polverosa, temibile sotto il sole e sotto l’imperversare dei venti, che assumono talvolta la forma di tornado. E’ il rumore del vento, alternato al fragoroso calpestio degli zoccoli del gregge, o ai versi dei vari animali, cammelli inclusi, o al canto delle due donne, madre e bambina, ad intessere la colonna sonora del film. Unica eccezione: la canzone, allegra e chiassosa (anche se originariamente legata al tema biblico e tragico degli ebrei deportati in Babilonia) Rivers od Babylon dei Boney M, ascoltata ossessivamente dall’unico amico di Asa, quello che vorrebbe lasciare il deserto per la città.
In effetti quella che si delinea è sostanzialmente la stessa contrapposizione tra l’attaccamento alle radici, e fuga alla ricerca di altro (progresso, miglioramento, civiltà: ovvero “la città”) che si ritrova in Verga, specie nella novella “Fantasticheria”, là dove ci si chiede perché delle persone decidono di stare testardamente attaccate allo scoglio dove le ha condotte il destino, quando potrebbero stare meglio. La conclusione del regista, Sergei Dvortesevoy, sembra la stessa del maggior esponente del verismo: chi si allontana è perduto.
Era indubbiamente una posizione ideologicamente conservatrice nell’ ‘800. Oggi, alla luce dell’altra faccia dello sviluppo, potrebbe essere definita diversamente. Sullo sfondo, appena accennato, il tema dell'emigrazione. I grandi movimenti migratori attuali evidenziano un discrimine, non facile da comprendere, tra chi decide di partire e chi decide di restare.
In conclusione: un film non bello, ma vero. Non privo di quei sentimenti fondamentali che accompagnano l’uomo in ogni tempo, in ogni luogo: la pietà e l’amore (o il desiderio struggente dell’amore).
Unica vera mancanza: la visione del cielo stellato, che si aspetta chi vorrebbe ritrovare anche le atmosfere lunari di un “canto notturno di un pastore errante dell’Asia”.
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[+] leopardi non ci può essere; verga forse
(di laulilla)
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castalia
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mercoledì 29 aprile 2009
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Prima osservazione: non fidarsi del trailer. Il film ha poco o nulla della divertente storia d'amore che i due minuti di anteprima suggeriscono. Al contario, è una storia fatta di grandi orizzonti, di distese aride e polverose, di lunghi silenzi. E' un film che parla di un mondo altro dal nostro, in cui sposarsi con l'unica ragazza della steppa vuol dire poter avere un gregge, e avere un gregge significa ritagliarsi un piccolo angolo di paradiso e poter avere, perchè no, addirittura un televisore.
Il protagonista, Asa, conduce lo spettatore nel suo mondo di pastori, facendogli sentire le sue contraddizioni, la sua crudele legge della sopravvivenza, la difficoltà di continuare ad esistere "malgrado" le comodità che la città lascia intravedere, che siano un pugno di caramelle o la foto del principe Carlo ritagliata da un giornale.
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Prima osservazione: non fidarsi del trailer. Il film ha poco o nulla della divertente storia d'amore che i due minuti di anteprima suggeriscono. Al contario, è una storia fatta di grandi orizzonti, di distese aride e polverose, di lunghi silenzi. E' un film che parla di un mondo altro dal nostro, in cui sposarsi con l'unica ragazza della steppa vuol dire poter avere un gregge, e avere un gregge significa ritagliarsi un piccolo angolo di paradiso e poter avere, perchè no, addirittura un televisore.
Il protagonista, Asa, conduce lo spettatore nel suo mondo di pastori, facendogli sentire le sue contraddizioni, la sua crudele legge della sopravvivenza, la difficoltà di continuare ad esistere "malgrado" le comodità che la città lascia intravedere, che siano un pugno di caramelle o la foto del principe Carlo ritagliata da un giornale.
Leopardi scriveva del canto di un pastore errante nell'Asia: qui siamo in Kazakistan, una terra molto diversa da quella di Borat, e il mondo del pastore Asa è davvero un canto, fatto spesso di parole incomprensibili ma non per questo meno dolci.
Avete mai visto partorire una pecora? Io no, e Tulpan è anche questo, un piccolo e delicato documentario su un mondo che forse non avremmo mai potuto conoscere.
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laulilla
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venerdì 24 aprile 2009
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non mi è piaciuto
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Non mi è piaciuto. Il racconto è molto esile e troppo lento; il documentario è troppo artificiosamente romanzato. La conclusione è che il film non è né un bel racconto, né un bel documentario, ma un lavoro che un po' goffamente cerca di collocarsi nella scia dei cammelli che piangono e dei cani gialli della Mongolia, ma quale abisso fra questo e quelli (bellissimi, a parer mio)
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