Un prodotto più televisivo che filmico, pensato soprattutto – direi – per il pubblico americano. Si tratta di una serie di interviste ad intellettuali americani ed italiani sul fenomeno Ferrante, in particolare sulle ragioni dello straordinario successo della tetralogia “L’amica geniale” , nonché sul senso che dovremmo dare al testardo anonimato della scrittrice, che si nasconde dietro uno pseudonimo. Introdotti dall’apprezzamento entusiastico di Hillary Clinton, si alternano scrittori come Jonathan Franzen, Elizabeth Strout, Francesca Marciano, la traduttrice americana della Ferrante Ann Goldstein, i registi Martone e Faenza che hanno tratto film dai primi romanzi della scrittrice; l’editore americano della Ferrante Michael Reynolds, Roberto Saviano che ha proposto nel 2016 senza successo la Ferrante per il premio Strega (nemo propheta in patria) e così via.
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Un prodotto più televisivo che filmico, pensato soprattutto – direi – per il pubblico americano. Si tratta di una serie di interviste ad intellettuali americani ed italiani sul fenomeno Ferrante, in particolare sulle ragioni dello straordinario successo della tetralogia “L’amica geniale” , nonché sul senso che dovremmo dare al testardo anonimato della scrittrice, che si nasconde dietro uno pseudonimo. Introdotti dall’apprezzamento entusiastico di Hillary Clinton, si alternano scrittori come Jonathan Franzen, Elizabeth Strout, Francesca Marciano, la traduttrice americana della Ferrante Ann Goldstein, i registi Martone e Faenza che hanno tratto film dai primi romanzi della scrittrice; l’editore americano della Ferrante Michael Reynolds, Roberto Saviano che ha proposto nel 2016 senza successo la Ferrante per il premio Strega (nemo propheta in patria) e così via. Le interviste sono inframmezzate da vagabondaggi di una un po’ improbabile donna misteriosa vista di spalle (sembra la spia che venne dal freddo), filtrati da una velatura trasparente che simula un manoscritto, facile metafora dell’annegamento dell’autrice nella sua scrittura. Qua e là, un’animazione che evoca l’infanzia delle due protagoniste della tetralogia. Il tutto ha l’aspetto di una incellophanatura suggestiva per rompere il tono troppo documentaristico della serie di interviste. Alla stessa logica obbedisce la voce narrante (Anna Bonaiuto) che legge con enfasi forse eccessiva, per nulla corrispondente al tono medio della Ferrante, brani da “La Frantumaglia”, lo scritto più prossimo ad una autobiografia dell’autrice. Un pacchetto nel complesso abilmente confezionato, che tuttavia non aggiunge molto nella sostanza a quel che un fedele lettore/lettrice sa già: la scrittura della Ferrante crea una vera e propria dipendenza, trascina e non annoia mai. I suoi libri si divorano e quando hai finito, senti che potresti e vorresti continuare a tempo indeterminato. Nonostante l’autrice sia modicamente interessata a tematiche politiche, sociali o filosofiche generali, e sviluppi una narrazione strettamente biografico-psicologica, la sua è indubbiamente una scrittura di qualità ed ha una sua profondità difficilmente definibile. Crea personaggi di straordinaria presa e ha saputo descrivere come nessuno un’amicizia tra due donne. Ha, come sottolinea la Strout, una scrittura ‘onesta’, in cui l’io narrante si racconta senza arretrare di fronte a nulla, senza autogiustificazioni o abbellimenti, in un viaggio spericolato nel peggio e nel meglio di una storia personale. Quanto alla questione di chi si nasconda dietro allo pseudonimo (ormai - mi sembra – segreto di Pulcinella, dopo l’attribuzione molto verosimile ad Anita Raja, ma di questo il docufilm non parla), rassegniamoci al fatto che questo sia un falso problema: come tutti gli intervistati sottolineano, l’autrice ha detto e ripetuto a sazietà che ciò che deve importare di lei al lettore è totalmente tradotto nella sua scrittura. Si insinua anzi che l’anonimato neppure giovi alla Ferrante, perché fa erroneamente pensare che questo pizzico di pepe che ha il sapore di un espediente mediatico sia determinante nel suo successo, il che – onestamente - non è. Se c’è un tema-chiave del film è proprio questo assunto dall’aria vagamente retro: la scrittura parla da sola, totalmente liberata dall’ingombro inessenziale del suo autore.
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