Il figlio dell’altra
i Lorraine Levy
Due ragazzi che hanno in comune il fatto di essere nati nello stesso giorno. Che conducono vite parallele divisi dal muro che separa la Cisgiordania e lo Stato di Israele, una barriera che non è solo materiale ma che denota astio, odio, incomunicabilità. Ci sono già abbastanza elementi per un confronto fra due mondi che si guardano in cagnesco, ognuno convinto delle bontà delle proprie ragioni. Ma c’è qualcosa in più che complica ulteriormente la situazione. Al momento del parto i due neonati sono stati scambiati a causa della confusione dovuta a un bombardamento sull’ospedale di Haifa. E così Joseph, figlio di palestinesi, cresce in una famiglia di Tel Aviv e Yacine, figlio di ebrei, diventa grande in una famiglia palestinese di Ramallah. La frittata è fatta ma nessuno se ne accorge fino a quando il giovane israeliano non si sottopone alla visita di leva e si scopre che ha un gruppo sanguigno incompatibile con quello dei genitori. L’ospedale riconosce l’errore e convoca un incontro a cui sono presenti entrambi i nuclei familiari. E’ l’inizio di uno psicodramma in cui ogni personaggio della vicenda è costretto a ridiscutere il proprio ruolo all’interno del contesto sociale in cui vive. In prima linea ci sono Yacine e Joseph e il loro stato d’animo è simboleggiato dalla frase di quest’ultimo durante il colloquio con un rabbino: “ Ma io sono ancora un ebreo?”. Per i genitori è una verità dura da accettare: le madri sono le prime a rompere il ghiaccio e a cedere alle ragioni del cuore. Impossibile per loro non provare affetto per il “figlio dell’altra”, con cui sentono un forte legame che non può che essere naturale. Molto più difficile è per gli uomini, in particolare per il padre di Joseph colonnello dell’esercito israeliano e quindi abituato alle rigidità della vita militare. La trama del film si dipana attraverso una continua tensione che non fa presagire allo spettatore l’esito finale. Di grande intensità emotiva sona ad esempio i posti di blocco che i membri dei due clan familiari sono tenuti a superare se vogliono vedersi. I due ragazzi finiscono per fare amicizia e i contatti al di qua e al di là del confine sono sempre più frequenti.
Il film, calato nella realtà particolare del conflitto israelo-palestinese, offre spunti che comunque sono validi a livello universale. L’interrogativo di fondo è: qual è veramente la nostra identità? Fino a che punto sono importanti nella nostra formazione le caratteristiche genetiche dei genitori? E fino a che punto invece è determinante la cultura che ci circonda? Probabilmente sono fondamentali entrambi e alla fine noi siamo un perfetto “mix” che è diverso da individuo a individuo. Ma Yacine e Joseph in che misura sarebbero stati differenti e fossero cresciuti fin dall’inizio nelle rispettive famiglie naturali? Il film da questo punto di vista non fornisce risposte e, per certi aspetti, è giusto che sia così. Il lieto fine dell’ultima scena induce a pensare che, anche nei contesti più problematici, è possibile sempre trovare una qualsivoglia soluzione.
Giovanni Moi
[+] lascia un commento a giovanni moi »
[ - ] lascia un commento a giovanni moi »
|