sergio dal maso
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giovedì 18 giugno 2015
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la forza delle donne
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Due ragazzi diciottenni, Joseph e Yacine, e due famiglie, una israeliana e l’altra palestinese.
Vivono a pochi chilometri di distanza ma, probabilmente, non si incontreranno mai perché tra di loro c’è un muro. O meglio, ce ne sono molti. Muri e barriere materiali, come quello imponente che divide Israele dai territori occupati della Cisgiordiania o i numerosi checkpoint presidiati dall’esercito e dal filo spinato.
Ci sono poi i muri psicologici, quelli innalzati dai pregiudizi e dall’odio ancestrale, fossilizzati da decenni di guerra e violenza, soprusi e vendette. La vita dell’israeliano Joseph, con le sue velleità artistiche, il benessere economico e le giornate in spiaggia con gli amici, è antitetica rispetto a quella di Yacine, che pur cresciuto nella precarietà e nella povertà del villaggio palestinese ha avuto la forza e il coraggio di andare a studiare medicina a Parigi, preservando il sogno d’infanzia di aprire un ospedale nella sua terra.
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Due ragazzi diciottenni, Joseph e Yacine, e due famiglie, una israeliana e l’altra palestinese.
Vivono a pochi chilometri di distanza ma, probabilmente, non si incontreranno mai perché tra di loro c’è un muro. O meglio, ce ne sono molti. Muri e barriere materiali, come quello imponente che divide Israele dai territori occupati della Cisgiordiania o i numerosi checkpoint presidiati dall’esercito e dal filo spinato.
Ci sono poi i muri psicologici, quelli innalzati dai pregiudizi e dall’odio ancestrale, fossilizzati da decenni di guerra e violenza, soprusi e vendette. La vita dell’israeliano Joseph, con le sue velleità artistiche, il benessere economico e le giornate in spiaggia con gli amici, è antitetica rispetto a quella di Yacine, che pur cresciuto nella precarietà e nella povertà del villaggio palestinese ha avuto la forza e il coraggio di andare a studiare medicina a Parigi, preservando il sogno d’infanzia di aprire un ospedale nella sua terra. La loro vita e quella delle rispettive famiglie, i loro mondi, così diversi e incompatibili, apparentemente destinati a non incrociarsi, si trovano invece all’improvviso l’uno di fronte all’altro. Un evento tanto incredibile quanto dirompente sconvolge la serenità delle loro esistenze: la scoperta che nel 1991 durante l’evacuazione dell’ospedale di Haifa per un bombardamento aereo le culle dei due neonati sono state scambiate per errore. Joseph non è ebreo ma figlio di un ingegnere palestinese costretto a lavorare come meccanico dal blocco della mobilità nei territori occupati.
L’arabo Yacine è invece ebreo, il vero padre è un alto ufficiale dell’aeronautica e la madre un affermato medico. La drammaticità della situazione non investe solo i ragazzi ma anche i genitori e i fratelli; la capacità di reagire, però, è differente e varia secondo la sensibilità e i valori di ciascuno. La reazione immediata dei padri è di aperta ostilità, si rifiutano di accettare la nuova situazione, temendo di “perdere” il proprio figlio.
Nell’incontro tra le due coppie si rinfacciano responsabilità politiche, dialogando con astio e pregiudizi in modo conflittuale. Le madri, invece, si fanno guidare dal cuore, anche quando restano in silenzio parlano con gli occhi, l’umanità del sentimento materno non teme di “perdere” un figlio ma spera di ritrovarne un altro. E’ grazie all’amore e all’aiuto delle madri che Joseph e Yacine sapranno incontrarsi senza paura e confrontarsi sulle loro vite, diventando amici e accettando la nuova identità di ebreo-palestinese.
Il messaggio forte e toccante dell’incredibile storia dei due neonati scambiati per errore, ispirata tra l’altro a un fatto realmente accaduto durante la guerra israelo-palestinese, è che l’affermazione della propria identità non può prescindere dall’accettazione e dalla comprensione dell’altro, dal confronto con ciò che è diverso da noi. Perché il figlio dell’altra non deve essere inteso solo come il figlio di un’altra madre, ma anche come il figlio di un’altra cultura o di un’altra generazione. Partendo dal coraggio e dalla sensibilità delle madri, Leila e Ourith, lo splendido film di Lorraine Levy ci invita a guardare “l’altro” con occhi diversi, cercando di capirne le ragioni e le motivazioni, anteponendo l’umanità degli individui all’appartenenza sociale e religiosa. E ancora una volta una voce di speranza e di pace per la martoriata terra palestinese arriva proprio dalle donne, ricordo per esempio lo sguardo femminile di Rula Jebreal e Nadine Labaki in “Miral” o “E ora dove andiamo?”, presentati nelle rassegne degli anni scorsi.
E’ un cinema che non ha bisogno di eclatanti scene di violenza o di improvvisi e drammatici colpi di scena, tanto meno vuole affrontare e spiegare le ragioni del conflitto. Il figlio dell’altra commuove e fa pensare raccontando con delicatezza e sensibilità storie di persone, la loro umanità e le loro sofferenze. Ci riesce innanzitutto per la grande bravura e l’abilità registica della Levy, capace di girare scene cinematograficamente stupende, si pensi ai silenzi e agli sguardi delle due coppie di genitori riunite per la prima volta, o la camminata notturna dell’ufficiale lungo il muro in cerca del figlio. Ma anche per aver saputo riunire un cast multietnico straordinario, nel film si parlano 4 lingue, che si è dimostrato molto affiatato e solidale durante la difficile lavorazione.
“La speranza” afferma la regista francese “non può che passare dalle donne e dalle nuove generazioni, resistendo con la perseveranza dell’amore di una madre”.
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nanni
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giovedì 23 aprile 2015
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il figlio dell'altra
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L’appartenere ad una comunità, la maggior parte delle volte, è deciso dalla casualità.
La condivisione delle scelte della comunità di appartenenza dovrebbe rispondere a criteri politici, mentre , invece, sembra che risponda più ad un bisogno, diciamo così, antropologico.
E’ il mero, rassicurante ed anestetizzante appartenere al la comunità la ragione stessa dell’appartenere.
E’ a partire dalla riflessione intorno a questo vincolo predeterminato che il bel film Lorrain Lévy mostra tutta la debolezza che sottintende scelte di campo che, invece di trovare la propria ragione nell’antropologia, dovrebbero attenere alla politica, nell’accezione più nobile del termine.
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L’appartenere ad una comunità, la maggior parte delle volte, è deciso dalla casualità.
La condivisione delle scelte della comunità di appartenenza dovrebbe rispondere a criteri politici, mentre , invece, sembra che risponda più ad un bisogno, diciamo così, antropologico.
E’ il mero, rassicurante ed anestetizzante appartenere al la comunità la ragione stessa dell’appartenere.
E’ a partire dalla riflessione intorno a questo vincolo predeterminato che il bel film Lorrain Lévy mostra tutta la debolezza che sottintende scelte di campo che, invece di trovare la propria ragione nell’antropologia, dovrebbero attenere alla politica, nell’accezione più nobile del termine.
I due giovani protagonisti, per un bizzarro gioco del destino, saranno costretti a scambiarsi vite e punti di vista in ogni senso.
Nell’inevitabile e drammatico confronto che ne deriverà, e nel quale saranno coinvolte le rispettive famiglie, i protagonisti scopriranno la parzialità e la fragilità della loro precedente contrapposizione.
Per Joseph e Racine sarà un punto di partenza per capire che l'unica comunità alla quale vale la pena appartenere è quella umana.
Il film è bello e necessario.
Ciao Nanni
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filippo catani
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martedì 27 gennaio 2015
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il dramma di due famiglie
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Durante dei bombardamenti presso l'ospedale di Haifa, il figlio di una coppia israeliana viene scambiato con quello di una famiglia palestinese. Una volta svolte le analisi per entrare a fare il militare, il ragazzo israeliano scoprirà che i suoi non sono i genitori biologici. Le due famiglie decideranno allora di provare a conoscersi.
Questo dramma familiare osserva da vicino quanto sta succedendo in Medio Oriente tra palestinesi e israeliani. Due famiglie restano letteralmente impietrite quando scoprono il tragico scambio. Cosa fare allora? Il padre israeliano è un colonnello dell'esercito che non vede affatto di buon occhio i palestinesi così come il padre palestinese vede negli israeliani gli usurpatori e oppressori della propria terra e del proprio popolo.
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Durante dei bombardamenti presso l'ospedale di Haifa, il figlio di una coppia israeliana viene scambiato con quello di una famiglia palestinese. Una volta svolte le analisi per entrare a fare il militare, il ragazzo israeliano scoprirà che i suoi non sono i genitori biologici. Le due famiglie decideranno allora di provare a conoscersi.
Questo dramma familiare osserva da vicino quanto sta succedendo in Medio Oriente tra palestinesi e israeliani. Due famiglie restano letteralmente impietrite quando scoprono il tragico scambio. Cosa fare allora? Il padre israeliano è un colonnello dell'esercito che non vede affatto di buon occhio i palestinesi così come il padre palestinese vede negli israeliani gli usurpatori e oppressori della propria terra e del proprio popolo. In mezzo insieme ai due ragazzi ci sono le due madri che cercano di raggiungere una mediazione e soprattutto hanno il cuore lacerato; infatti da una parte amano ovviamente il figlio che hanno rispettivamente cresciuto ma d'altra parte non resistono al desiderio di abbracciare il loro "vero" figlio. Ancora una volta il cinema mette in scena con realismo e crudezza un conflitto a cui nessuno sembra cercare soluzione e quì si mette pienamente a confronto lo stile di vita di due popoli completamente diversi a causa della guerra e dei muri divisori. Da una parte si vive in belle case, si hanno bei vestiti e una vita abbastanza tranquilla, dall'altra parte è tutto il contrario. Forse la pecca del film è un po' quella di perdersi nella seconda parte per arrivare a un finale un po' banale e scontato se vogliamo e che toglie qualche punto a un film comunque assolutamente valido e molto ben recitato dal cast al completo.
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kondor17
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lunedì 23 dicembre 2013
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la pace è nello scambio?
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Sullo sfondo dell'eterno conflitto israelo-palestinese, due famiglie delle sponde opposte si trovano catapultate in un problema apparentemente irrisolvibile. Durante la visita di leva, infatti, i medici notano che Joseph ha un gruppo sanguigno incompatibile con quello dei genitori; le autorità devono pertanto prescrivere la prova del dna, per stabilirne le origini. Dall'altra parte, una famiglia palestinese, il cui figlio Yacine studia a Parigi, viene pure chiamata a fare la stessa prova. Invitati tutti dal direttore sanitario, l'atroce dubbio diventa cruda realtà: in piena guerra del golfo, nel gennaio 1991, un'infermiera nel panico scambia i due neonati.
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Sullo sfondo dell'eterno conflitto israelo-palestinese, due famiglie delle sponde opposte si trovano catapultate in un problema apparentemente irrisolvibile. Durante la visita di leva, infatti, i medici notano che Joseph ha un gruppo sanguigno incompatibile con quello dei genitori; le autorità devono pertanto prescrivere la prova del dna, per stabilirne le origini. Dall'altra parte, una famiglia palestinese, il cui figlio Yacine studia a Parigi, viene pure chiamata a fare la stessa prova. Invitati tutti dal direttore sanitario, l'atroce dubbio diventa cruda realtà: in piena guerra del golfo, nel gennaio 1991, un'infermiera nel panico scambia i due neonati. Dopo le dovute scuse, il direttore dà inizio alla procedura burocratica; le famiglie ne escono distrutte, soprattutto gli uomini, nemici sputati; uno, l'israeliano, colonnello dell'esercito, l'altro, Said, ingegnere costretto a fare il meccanico perchè relegato entro mura. Ma, nonostante tutto, i due si parlano, discutendo entrambi le proprie ragioni, litigando anche, ma si parlano. Le madri da subito mostrano affetto e comprensione reciproca. Il vero problema è Bigal, il figlio maggiore della famiglia araba, che disconosce il fratello Yacine non appena torna diplomato da Parigi, mentre Il conflitto interiore maggiore è quello di Joseph. Ebreo circonciso, rifiutato dal rabbino ed estremamente sensibile, egli trova invece conforto proprio nel fratello di sangue, Bigal, e amicizia in Yacine, il più emancipato e sciolto dei tre. La loro amicizia e l'amore delle madri per tutti i loro figli, giusti o sbagliati che siano, sarà la chiave di volta della storia e del futuro di una sola famiglia "allargata".
Il film è un quasi capolavoro. Interpretazioni, storia, ambientazione veramente sopra la media, come la musica e la splendida fotografia. E il messaggio è chiaro e positivo: solo la gente, con i suoi valori fondamentali, può interrompere un conflitto politico, voluto solo dai potenti della guerra, che alimentano ad hoc, con armi ed informazioni, sia il terrorismo arabo che il terrorismo di stato israeliano.
Solo la scena finale sulla spiaggia mi è sembrata inutile e pure fuori luogo: non si accoltella uno sconosciuto per una sigaretta e mi domando: era proprio necessario il sangue anche qui? E poi che ci fanno gli skin in spiaggia a Tel Aviv? Il film andava già in una chiara direzione e lo si capiva-auspicava sin dall'inizio. Peccato, senza di questo era da cinque stelle; comunque grande, grandissimo film.
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homer52
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giovedì 14 novembre 2013
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figli d'unica "madre"
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Scoprire d'aver invertito i neonati è evidentemente drammatico, ma se a tutto ciò si aggiunge il conflitto fra ebrei e palestinesi la situazione può diventare "esplosiva".Invece nel film è privilegiato l'aspetto umano degli affetti e delle emozioni e la sensazione che se ne ricava è che, in fondo, servirebbe ben poco per risolvere i grandi problemi socio politici internazionali: basterebbe dare maggior spazio ai vissuti e alle esigenze dei singoli cittadini. Siamo tutti uguali di fronte ai problemi della vita quotidiana.
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rampante
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venerdì 1 novembre 2013
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uno strano destino
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Joseph Silberg è un ragazzo israeliano, vive spensierato i suoi 18 anni in attesa del servizio di leva obbligatorio, ama suonare e da grande vuole fare il cantante.
Per entrare in Aviazione fa gli esami del sangue, qualcosa non quadra e presto scopre la verità.
Quando è nato nel 1991, in piena guerra del Golfo, l'ospedale di Haifa venne evacuato perchè rischiava di essere bombardato e nel caos due neonati vennerò scambiati e cresciuti nella famiglia sbagliata.
E' difficile ora, rimettere in discussione l'intera vita per un terribile errore, per essere stati frettolosamente scambiati con un altro neonato.
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Joseph Silberg è un ragazzo israeliano, vive spensierato i suoi 18 anni in attesa del servizio di leva obbligatorio, ama suonare e da grande vuole fare il cantante.
Per entrare in Aviazione fa gli esami del sangue, qualcosa non quadra e presto scopre la verità.
Quando è nato nel 1991, in piena guerra del Golfo, l'ospedale di Haifa venne evacuato perchè rischiava di essere bombardato e nel caos due neonati vennerò scambiati e cresciuti nella famiglia sbagliata.
E' difficile ora, rimettere in discussione l'intera vita per un terribile errore, per essere stati frettolosamente scambiati con un altro neonato.
Entrambi sono i figli "dell'altra". Uno è ebreo e l'altro musulmano.
I genitori di Joseph sono israeliani e vivono a Tel Aviv mentre i genitori di Yacine sono palestinese e vivono in Cisgiordania. Due mondi.
Le due famiglie sono sconvolte dall'irruzione nel loro quotidiano del diverso che improvvisamente non possono più ritenere tale.
Siamo in Israele e l'altro è il nemico, viene da un mondo che ha distrutto la tua terra, che ha rotto i tuoi legami più cari, appartiene ad un popolo che ti insegnano
ad odiare e a temere fin da bambino.
Le due famiglie si trovano nella conflittualità arabo-sraeliana e sono costretti a vivere tra dissidi ed indispensabile riconciliazione, tentano di avvicinarsi ma i padri finiscono per lo scontrarsi, per rinfacciarsi il dolore dei loro popoli.
Come può accettare una tale situazione un reduce dalla guerra in Iraq, alto ufficiale dell'aeronautica israeliana o un ingegnere musulmano costretto a fare il meccanico perchè non può liberamente muoversi nella sua terra e piange un figlio ucciso dall'occupante.
I due ragazzi Joseph e Yacine provano ad interrogarsi e decidono di entrare l'uno nella famiglia dell'altro frequentando la vita che avrebbero dovuto vivere e rientrando in quella che gli è capitato di vivere, trasformando così la loro famiglia in un nucleo imperfetto allargato anzi allargatissimo.
E' una storia tragica sull'identità
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derriev
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sabato 22 giugno 2013
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idea intrigante
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Da un'idea intrigante, come nucleo della vicenda, una storia però scontata, anche nel raffronto con la potenzialità del soggetto.
La trama: una famiglia ebrea ed una araba, palestinesi, si scambiano i rispettivi figli in fasce. Il riconoscimento del fatto e l'accettazione, saranno una dura prova per entrambe, e per i ragazzi stessi che scopriranno, ognuno, di essere il nemico... di se stesso.
Una situazione limite ma plausibile: è questa la forza del film.
Peccato che tutte le implicazioni di una questione così densa siano sorvolate dalla sceneggiatura, che indulge su dissidi e picchi di orgoglio e rabbia, per veleggiare alla fine nelle acque tranquille del "volemose bbene".
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Da un'idea intrigante, come nucleo della vicenda, una storia però scontata, anche nel raffronto con la potenzialità del soggetto.
La trama: una famiglia ebrea ed una araba, palestinesi, si scambiano i rispettivi figli in fasce. Il riconoscimento del fatto e l'accettazione, saranno una dura prova per entrambe, e per i ragazzi stessi che scopriranno, ognuno, di essere il nemico... di se stesso.
Una situazione limite ma plausibile: è questa la forza del film.
Peccato che tutte le implicazioni di una questione così densa siano sorvolate dalla sceneggiatura, che indulge su dissidi e picchi di orgoglio e rabbia, per veleggiare alla fine nelle acque tranquille del "volemose bbene".
Certo, è da rispettare la scelta di registro da parte del regista, ma resta l'idea di un'occasione mancata per un film altrimenti pietra miliare.
Ottimi cast, scenografie e ambientazioni.
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karlove
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mercoledì 1 maggio 2013
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in un canto la chiave mistica
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Il dramma palestinese è giocato nel film senza accentuazioni ideologiche, ma con inquadrature che gridano da sole: un MURO: di quà Tel Aviv "piena di luci e di colori", di là villaggi senza forma, e costretti nella miseria. Essendo cattolico io venero i padri ebrei che ci hanno portato l'autore della vita. Amo la sapienza ebraica, condivido il dolore per la Shoah, compatisco il disprezzo degli ebrei ortodossi nei confronti di noi cristiani, ma la Palestina no, non riesco a sentire nessuna ragione, non riesco a farla passare. Dico: tu Israele vieni fuori da un disastro morale, da una devastazione del popolo martoriato da anni di umiliazioni e sofferenze; hai la grazia di ritornare nella tua terra, la terra dei padri biblici e invece di condividere questa terra con chi ci vive da secoli, che fai? Crei un recinto, crei dei campi profughi che gridano a Dio giorno e notte, e costringi questa povera gente a viverci dentro.
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Il dramma palestinese è giocato nel film senza accentuazioni ideologiche, ma con inquadrature che gridano da sole: un MURO: di quà Tel Aviv "piena di luci e di colori", di là villaggi senza forma, e costretti nella miseria. Essendo cattolico io venero i padri ebrei che ci hanno portato l'autore della vita. Amo la sapienza ebraica, condivido il dolore per la Shoah, compatisco il disprezzo degli ebrei ortodossi nei confronti di noi cristiani, ma la Palestina no, non riesco a sentire nessuna ragione, non riesco a farla passare. Dico: tu Israele vieni fuori da un disastro morale, da una devastazione del popolo martoriato da anni di umiliazioni e sofferenze; hai la grazia di ritornare nella tua terra, la terra dei padri biblici e invece di condividere questa terra con chi ci vive da secoli, che fai? Crei un recinto, crei dei campi profughi che gridano a Dio giorno e notte, e costringi questa povera gente a viverci dentro.
Quello che m'impressiona è che, gli israeliani, così intelligenti, si meraviglino che i palestinesi li odiino e raggiungono l'insensatezza di uccidere chi dimostra di comprendere la grave ingiustizia perpetrata.
La bellezza salverà il mondo. Il ragazzo ebreo, in realtà palestinese, va a trovare i suoi veri genitori aldilà del muro, a tavola intona un canto che noi spettatori non abbiamo capito per ovvi motivi (io avrei messo dei sottotiloli). In quel canto intonato dal ragazzo ma cantato da tutti c'è la chiave mistica del film, quel canto segna una profonda unione tra gli uomini divisi dalle circostanze e dalla storia.
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andrea polidoro
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venerdì 12 aprile 2013
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vince la fratellanza
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Ho visto stasera questo disvelarsi per me di un ancor più forte sentimento di vicinanza con i popoli d'Israele e Palestina: ognuno rivendica le proprie ragioni storico-politiche ma alla fine vince la fratellanza. La sottigliezza della visione di due fratelli che si scoprono tali ma da madri diverse e invertite possiede la sensibile riconoscenza verso la necessità di una pace e il riconoscimento dei diritti di ogni Popolo. I loro luoghi sono i nostri luoghi.Da vedere.
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giovanni moi
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mercoledì 10 aprile 2013
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il dialogo impossibile
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Il figlio dell’altra
i Lorraine Levy
Due ragazzi che hanno in comune il fatto di essere nati nello stesso giorno. Che conducono vite parallele divisi dal muro che separa la Cisgiordania e lo Stato di Israele, una barriera che non è solo materiale ma che denota astio, odio, incomunicabilità. Ci sono già abbastanza elementi per un confronto fra due mondi che si guardano in cagnesco, ognuno convinto delle bontà delle proprie ragioni. Ma c’è qualcosa in più che complica ulteriormente la situazione. Al momento del parto i due neonati sono stati scambiati a causa della confusione dovuta a un bombardamento sull’ospedale di Haifa.
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Il figlio dell’altra
i Lorraine Levy
Due ragazzi che hanno in comune il fatto di essere nati nello stesso giorno. Che conducono vite parallele divisi dal muro che separa la Cisgiordania e lo Stato di Israele, una barriera che non è solo materiale ma che denota astio, odio, incomunicabilità. Ci sono già abbastanza elementi per un confronto fra due mondi che si guardano in cagnesco, ognuno convinto delle bontà delle proprie ragioni. Ma c’è qualcosa in più che complica ulteriormente la situazione. Al momento del parto i due neonati sono stati scambiati a causa della confusione dovuta a un bombardamento sull’ospedale di Haifa. E così Joseph, figlio di palestinesi, cresce in una famiglia di Tel Aviv e Yacine, figlio di ebrei, diventa grande in una famiglia palestinese di Ramallah. La frittata è fatta ma nessuno se ne accorge fino a quando il giovane israeliano non si sottopone alla visita di leva e si scopre che ha un gruppo sanguigno incompatibile con quello dei genitori. L’ospedale riconosce l’errore e convoca un incontro a cui sono presenti entrambi i nuclei familiari. E’ l’inizio di uno psicodramma in cui ogni personaggio della vicenda è costretto a ridiscutere il proprio ruolo all’interno del contesto sociale in cui vive. In prima linea ci sono Yacine e Joseph e il loro stato d’animo è simboleggiato dalla frase di quest’ultimo durante il colloquio con un rabbino: “ Ma io sono ancora un ebreo?”. Per i genitori è una verità dura da accettare: le madri sono le prime a rompere il ghiaccio e a cedere alle ragioni del cuore. Impossibile per loro non provare affetto per il “figlio dell’altra”, con cui sentono un forte legame che non può che essere naturale. Molto più difficile è per gli uomini, in particolare per il padre di Joseph colonnello dell’esercito israeliano e quindi abituato alle rigidità della vita militare. La trama del film si dipana attraverso una continua tensione che non fa presagire allo spettatore l’esito finale. Di grande intensità emotiva sona ad esempio i posti di blocco che i membri dei due clan familiari sono tenuti a superare se vogliono vedersi. I due ragazzi finiscono per fare amicizia e i contatti al di qua e al di là del confine sono sempre più frequenti.
Il film, calato nella realtà particolare del conflitto israelo-palestinese, offre spunti che comunque sono validi a livello universale. L’interrogativo di fondo è: qual è veramente la nostra identità? Fino a che punto sono importanti nella nostra formazione le caratteristiche genetiche dei genitori? E fino a che punto invece è determinante la cultura che ci circonda? Probabilmente sono fondamentali entrambi e alla fine noi siamo un perfetto “mix” che è diverso da individuo a individuo. Ma Yacine e Joseph in che misura sarebbero stati differenti e fossero cresciuti fin dall’inizio nelle rispettive famiglie naturali? Il film da questo punto di vista non fornisce risposte e, per certi aspetti, è giusto che sia così. Il lieto fine dell’ultima scena induce a pensare che, anche nei contesti più problematici, è possibile sempre trovare una qualsivoglia soluzione.
Giovanni Moi
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