Il banchetto di nozze

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Un film di Ang Lee. Con Winston Chao, May Chin, Mitchell Lichtenstein, Sihung Lung Titolo originale Xiyan-Hsi-Yen - The Wedding Banquet. Commedia, durata 102 min. - USA, Taiwan 1993. - Lucky Red uscita mercoledì 3 agosto 1994.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Il banchetto di nozze, Orso d’oro a Berlino nel 1993, non è una qualsiasi commedia garbata e divertente: Green Card con complicazioni omosessuali, e in più il tocco di novità di un cocktail interrazziale di interpreti. Perché siamo a New York, il giovane costruttore Wai-tung è taiwanese, il suo compagno ormai da cinque anni, Simon, è wasp purosangue, e i due, in seguito agli insistenti appelli spediti da lontano via cassetta dalla mamma cinese, non trovano miglior soluzione che quella di far sposare Waitung a una sua bella e squattrinata inquilina, anche lei cinese e aspirante a una green card - che, come abbiamo appreso dal grazioso e fasullo film di Peter Weir sull’argomento, è il permesso di lavoro e soggiorno nella Mecca americana.
Peccato che, onde festeggiare l’evento destinato a placare la loro insistenza, i genitori arrivino da Taiwan per celebrare insieme al figlio il suo matrimonio, e che nel corso di un gigantesco banchetto di nozze secondo la tradizione cinese lo scontro tra questo calderone di culture e di segreti produca risultati che rischiano di essere esplosivi.
Il film del taiwanese d’America Ang Lee si rivela una commedia di costume autenticamente sottile e aspra, divertente e toccante, che cominci a vedere pensando “famiglie, vi odio” e ti lascia alla fine nella convinzione che esiste una forma di famiglia non tradizionale che, invece, vale comunque la pena di costruire. Si chiamava Sour Sweet - come uno dei sapori tipici della cucina orientale - il film di Mike Newell su una famiglia cinese di Londra. Ang Lee, che come il suo protagonista è di Taiwan ma naturalizzato americano, sa governare con mano leggerissima ma non per questo meno efficace questo blend agrodolce di sentimenti e sogni contrastanti, di aspirazioni tradizionali e di slanci personali che vanno in tutt’altra direzione.
I due felici concubini gay non avrebbero problemi di sorta se l’affetto per i genitori di Wai-Tung non li costringesse a inventare la soluzione del matrimonio di convenienza. La bella Wei Wei (May Chin) è un po’ innamorata di Wai-Tung, ma si atterrebbe ai patti se un cedimento di lui, la notte della cerimonia di nozze, non la mettesse incinta. E Simon starebbe anche lui al gioco, in attesa che i genitori del suo bello se ne tornino a Taiwan, se non sentisse minacciate le basi di quella che era una solidissima relazione d’amore. Quanto ai due generosi, tradizionali, civilissimi mamma e papà, per un po’ non capiscono, poi fanno finta di non capire, poi, separatamente, capiscono e accettano. E c’è il rischio che il terzetto che si lasciano alle spalle tornando in patria sarà forse più solido e cementato della tradizionale famiglia nucleare.
Credo che non si sia mai visto sullo schermo, salvo che nei film gay militanti, una così pacata e realistica presa di posizione nei confronti di una “famiglia” omosessuale. E l’Arcigay, che ha attivamente collaborato al lancio del film, deve aver capito il potenziale profondo di questo film civile e tollerante, che non ricorre mai alla gag per la gag, che non strizza l’occhio e non titilla la fantasia, in cui tutti - genitori, figli, amanti e finte mogli - hanno le loro buone ragioni e una vera umanità. Se c’è un bravo regista dietro la semplice ma perfetta dinamica delle scene domestiche -in cui rifulgono il babbo ex generale e la mamma bella, preoccupata e gentile -, diventa ancora più bravo nella scena fastosa e colorata del banchetto di nozze e della successiva festa nella camera da letto dei due imbarazzatissimi sposi. E il film di Ang Lee impartisce due lezioni. La prima è che, quando possibile, bisogna affrontare la verità
- in questo caso quella omosessuale del “coming out”, del rivelarsi: la vita saprà trovare ugualmente il suo corso naturale. La seconda è che si possono fare commedie senza indulgere ai sentimentalismi e senza calpestare la dignità dei personaggi e il buon senso degli spettatori.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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