Non si sevizia un paperino |
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Un film di Lucio Fulci.
Con Irene Papas, Florinda Bolkan, Barbara Bouchet, Marc Porel, Tomas Milian.
continua»
Poliziesco,
durata 110 min.
- Italia 1972.
MYMONETRO
Non si sevizia un paperino
valutazione media:
3,08
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Guardare, non smettere mai di guardare...
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| lunedì 24 novembre 2008 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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Vi sono due scene -quelle di cui parla Stefano Franzoni nella sua bella recensione qui su ‘mymovies.it’- in cui è implicata forse più che in altre una qualità del vedere: la scena del linciaggio e la scena in cui la Bouchet -nuda- invita un bambino a portargli un'aranciata. Sono sequenze in cui Fulci 'prende a schiaffi' in un modo molto benevolo lo spettatore, così da permettergli non solo di entrare in un cinema semplicemente per divertirsi (sacrosanto motivo del resto) ma anche per fare una esperienza di ‘discrasia’ emotiva. Quelle scene sono un colpo che allenta necessariamente una rigida (mi riferisco ai censori) tenuta stagna morale e che ci mette di fronte ad un certo disagio-piacere, quello provato da bambini nel vedere per la prima volta una donna nuda che non sia la propria madre ad esempio (disagio-piacere è naturalmente un termine posticcio perchè un bambino non sa cosa sente montargli dentro e non sa dargli un nome, può solo rifugiarsi dentro una complicità di gruppo e continuare a tenere viva quella sensazione per poterla conoscere). C’è un rigore dello sguardo in Fulci che diviene necessariamente anche dello spettatore ed è un rigore assolutamente morale. Non si tratta di cosa è bene vedere e cosa no, ma di cosa fare delle emozioni che suscita lo sguardo. Riconoscerle? Averne paura? Il giovane prete si aiuta con un paio di occhiali imponenti e con un apparato sacramentale che piuttosto lo espongono ad una protezione eccessiva. Allo stesso modo gli assassini della ‘maciara’ non sono in possesso di strumenti per fronteggiare dismorfismi visivi, perchè del resto non si desidera se non guardando (e la Bouchet –bellissima da far male- non può non essere guardata). Tutti i pezzi devono andare al loro posto: la ‘maciara’ è colpevole e va uccisa; Barbara –lo abbiamo visto- è una puttana. Un bambino così piccolo non può andare con una prostituta, non può avere pulsioni, non può essere depositario di una dignità eroticamente esprimibile (Freud-Fulci docet). La ‘maciara’ in questo senso non può che essere la vittima designata, e il piccolo cimitero di Accendura è l’altare pagano sulla quale immolarla al dio-maschio-carnefice, un dio che non ha bisogno di sentirsi uomo sostenendo il proprio sguardo sulla bellezza di una donna tanto da alimentare il desiderio fino a conoscerla, ma –essendo dio- può fare a meno del femminile, anzi lo vuole degradato. La morte della maciara-Bolkan è l’unica esperienza sessualizzata alla portata di quegli uomini: il cimitero è il set infatti di una morte –appunto- sessualizzata, un omicidio in forma di stupro (mentre Vanoni canta il pensiero muto di quella donna se un giorno avesse potuto prendere quella autostrada sospesa: “e mi vergogno un po’ di averti detto sì, ora che ho più dignità…“). Mi sorprendo ogni volta a rivedere questo film e a starci dentro, perchè un film è innanzi tutto una visita dentro una storia raccontata da un altro, è un po’ come passare una serata a casa sua. Fulci -perfino nei suoi film più manifestamente comici- disegna uno sguardo, non ci fa affondare in un boudoir che riflette una immagine narcisistica. Conversa, ci coglie impreparati, ci racconta di quando ha provato per la prima volta quel turbamento da bambino, ci invita a riviverlo noi, a racontarlo a nostra volta, a ricordarlo se mai ce ne fossimo dimenticati, a guardare indietro con benevolenza a noi stessi: guardare, sempre guardare, non smettere mai di guardare…
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