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Ho visto in questi giorni Frankenstein di Guillermo del Toro, il primo film che vedo del regista. Avevo letto che è maestro della forma, e devo dire che la fama è meritata: del Toro riesce a creare bellezza nel contrasto tra l’osceno e il sublime. C’è un’eleganza visiva che attraversa ogni inquadratura — i costumi, le luci, la fotografia — e tutto questo contribuisce a rendere il film un’esperienza estetica notevole.Tra i personaggi, spicca soprattutto Elisabeth, interpretata da Mia Goth, che ho trovato magnetica. Il suo personaggio, tuttavia, viene depotenziato e quasi annullato nella seconda parte del film. Tutto diventa frettoloso e incoerente. Sarebbe stato molto più interessante se fosse stata Elisabeth – e non il vecchio cieco – a “educare” la creatura, costruendo un legame che evolvesse con lentezza, rispetto e curiosità reciproca.
Il tema della bellezza dietro l’apparenza dovrebbe essere il cuore del film, e invece resta in superficie, solo suggerito. La narrazione affidata a Jacob Elordi perde d’intensità e di familiarità. Trasformare la creatura in una sorta di incrocio tra Biancaneve e il Fantasma dell’Opera buono che veglia su una famiglia sconosciuta mi è sembrato uno sviluppo narrativo superfluo e superficiale. Anche la creatura, più che mostruosa, risulta incongruente, quasi aliena: una specie di Silver Surfer terrestre che, nonostante i suoi “poteri”, si rigenera solo fino a un certo punto, di rado mangia e non ha bisogni fisiologici. Il film parte con l’ambizione di darsi un taglio scientifico, ma poi introduce l’immortalità come un effetto collaterale, rompendo del tutto la sospensione di credibilità.
L’unica lettura plausibile sarebbe simbolica: una creatura senza anima, non accettata da Dio, condannata a vagare per sempre.
Ma manca il misticismo necessario per sostenere questa visione: il risultato è che il personaggio sembra più un vampiro che Frankenstein. E qui sta il vizio finale, e fatale: la mancanza di un senso ultimo.
La creatura, pur non avendo colpa di essere nata e pur essendo di indole buona, è l’unica a essere punita. Il suo creatore può morire e liberarsi della colpa, mentre lei è costretta a vivere per sempre, senza identità, senza appartenenza, senza amore. La morte diventa liberazione, la vita una condanna.
Ma il film non offre una vera morale, né una possibilità di riscatto o di significato. Il finale, malinconico e sospeso, lascia la creatura sola in mezzo ai ghiacci: un essere senza identità e senza scopo.
Sarebbe bastato poco — un gesto, un incontro, persino un nuovo inizio accanto al capitano che li trova alla fine — per dare un senso alla sua esistenza e alla morale del film, ossia la belezza oltre all’estetica invece no, poichè è la vita senza significato a essere la vera maledizione. Perfino il personaggio di Victor, che all’inizio prometteva profondità, finisce per apparire svuotato, demotivato e ostile verso la sua stessa creazione, che pure rappresenta il suo successo più grande.
È una contraddizione che lo rende superficiale e sgradevole. C’è il tentativo di costruire qualcosa di sublime — visivamente e moralmente — ma questa visione si dissolve, come un sogno che si spegne prima di trovare un senso.
E forse è proprio questo che irrita di più: non l’assenza di potenziale, ma il suo spreco.
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