Cosa c’è nel futuro dell’umanità? L’ibridazione con animali o addirittura cose, oppure l’autopotenziamento grazie allo sfruttamento delle risorse ancora inesplorate della mente? “Titane” opta per la prima risposta e non vi è dubbio che, se questo è il nostro futuro, il film merita già solo per questo un apprezzamento perché ha la capacità di guardare avanti, se non addirittura oltre. Se invece la risposta giusta è la seconda, “Titane” merita comunque un apprezzamento, perché ci fa capire quanto sarebbe sbagliata la prima strada. La protagonista, infatti ibridizzata per mezzo di una piastra di titanio infissa nella testa, acquisisce l’attitudine a interagire fisicamente con le automobili, al punto di avere rapporti sessuali e rimanere incinta di una di esse. Ma la perdita parziale di umanità non potenzia l’essere umano, lo disumanizza, sicché commettere crudeltà gratuite nei confronti dei propri simili (o anche veri e propri atti di autolesionismo) diventa il naturale effetto dell’ibridazione. È ovvio che il residuo di umanità consentirà sempre l’incontro con “l’altro”, ma il prezzo di quell’incontro sarà stato troppo alto da pagare, forse insostenibile. E allora il terzo merito del film è farci apprezzare che forse l’evoluzione umana non passa per le ibridazioni, ma per il progredire delle nostre facoltà intellettuali: la mente umana come ambito ancora in gran parte inesplorato, come vera risorsa da conoscere e sfruttare per l’elevamento della civile convivenza e qualità della vita. In buona sostanza la mente umana come mezzo più prezioso in assoluto dell’universo per accrescere irreversibilmente la ricchezza di ognuno e di tutti e, cioè, per mantenere in sé il bene assoluto e, per questo più sfuggente: la felicità. “Titane” non è il cinema di domani, è il cinema di ciò che non dev’essere domani; se infatti l’anima è il luogo più profondo di noi, in cui confluiscono passato e presente, ricordi e passioni, esperienze e attitudini, se l’anima è ciò che ci umanizza, allora la strada giusta è quella che ci porta al migliorare la nostra umanizzazione, non a perderla parzialmente. Chissà se questo in fondo non sia anche il pensiero di Julia Ducournau: la crudeltà gratuite del film, il processo di imbruttimento della protagonista, le luci acide, i dialoghi inesistenti, il dolore esibito, le ferite, i lividi, la solitudine, l’assurdità delle situazioni fanno in realtà di “Titane” non un film horror, e neanche un film mostruoso, bensì un film sull’orrore che può discendere da future possibili scelte tecnologiche mostruose ai danni della nostra umanità.
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