Il film di Julie Ducournau è carne/sangue e metallo/olio avanti anni luce rispetto al cinema contemporaneo, un oggetto non identificato che arriva dal futuro per parlarci della vita e dell’amore. Vincitore della Palma d’oro a Cannes e ora al cinema.
di Pedro Armocida
Titane, titanio, Titano. Ossia, in ordine, il sorprendente film di Julia Ducournau, il metallo resistente e leggero usato anche nelle protesi mediche, i primordiali dei della mitologia greca. Niente è casuale nell’opera seconda dell’unica donna regista a vincere la Palma d’Oro al festival di Cannes dopo Jane Campion per Lezioni di piano nel lontanissimo 1993.
Titane è un affascinante e sontuoso teorema, non cerebrale ma molto corporale, sul “ritorno a casa, a trovare mio padre” della protagonista, proprio come suonano le parole del brano tradizionale bluegrass che apre e chiude il film, “Wayfaring Stranger”, rivisitato da David Eugene Edwards.
Il ‘primo’ padre della protagonista Alexia è quello naturale ma da lei non accettato e ha il volto del regista Bertrand Bonello, quasi una chiamata in correità di una certa tendenza del cinema francese. È lui alla guida dell’auto quando, da piccola, Alexia rimane coinvolta in un incidente e viene salvata dai medici grazie all’inserimento nella testa di una placca di titanio all’origine della sua metamorfosi tra donna e macchina.
Da grande Alexia, interpretata da una strepitosa Agathe Rousselle, è una ballerina che si muove sensuale sulle macchine nei saloni dell’auto e sa come tenere a bada i bollori dei fan che non esita, nel caso, a eliminare fisicamente. Mentre, di fronte a una Cadillac di fiammante bellezza, si concede completamente in un atto sessuale che la farà rimanere incinta. Questa è la parte che, estrapolata dal contesto, può suonare ridicola e spiace che un regista serio come Nanni Moretti, in concorso anche lui a Cannes con Tre piani, si sia prestato su Instagram a una facile ironia.
Perché Titane è tutt’altro. Titane è carne/sangue e metallo/olio avanti anni luce rispetto al cinema contemporaneo, infatti divide esattamente in due critica e pubblico. Titane è un oggetto non identificato che arriva dal futuro per parlarci della vita e dell’amore. Dove il titanio è quello che ormai ci porteremo sempre di più nei nostri corpi, così come l’identità di genere, la sessualità e i tabù (che i titani greci non avevano) sono liquidi alla stregua di Alexia che, ricercata per i suoi vari assassinii, nel tentativo di fuggire dalla polizia, si cambia i connotati per assomigliare a un ragazzo apparso sui cartelloni alla “Chi l’ha visto”.
Ecco l’introduzione del personaggio del forzuto comandante dei vigili del fuoco Vincent, stesso nome dell’attore straordinario che lo interpreta, Vincent Lindon, che vuole vedere in lui (lei) il figlio scomparso. Alexia lo sceglie come padre. Le affinità sono elettive. Prende così forma una sorta di straziante melodramma tecno e punk portato dalla regista alle sue estreme conseguenze esattamente come tutta la prima parte del film con la sua ultraviolenza virata in chiave ultrapop quando, ad esempio, fa commettere una strage ad Alexia al ritmo di "Nessuno mi può giudicar"e di Caterina Caselli. Il cinema di Cronenberg, apparentemente così vicino, è già così lontano.
Julia Ducournau si concentra sul racconto di un certo cameratismo dei pompieri che non è solo maschilismo ma espressione di chiusura di interi pezzi della società. Titane e Alexia sono invece molto aperti, fluidi, pronti ad accogliere la vita e l’amore in qualsiasi forma essi si presentino. Ecco la forma (‘muscolare’ dirà qualcuno, anche se è un termine fuorviante già da quando veniva utilizzato per Kathryn Bigelow), i corpi, la messa in scena.