giovanni
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giovedì 8 giugno 2023
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deluso. film noioso
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Documententario noioso, dialoghi banali, lento, deludente, inutile.
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sabato 18 giugno 2022
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soltudine dei protagonisti
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Ottimo commento ma non le pare sia anche visibile una somiglianza fra il destino di Pietro e dell'orso, entrambi soli violenti e vittime.
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martedì 7 aprile 2020
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la pelle dell'orso, un film riuscito a metà
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Una recensione forse un po' troppo benevola che omette ogni riferimento ai difetti del film. E' vero che si tratta sostanzialmente di un buon film, realizzato con grande bravura e professionalità di tutti, ma non si possono non rilevare alcuni aspetti non del tutto positivi. Innanzitutto la vicenda, pur su una buona sceneggiatura, è sviluppata in modo a volte prolisso che appesantisce la fluidità del racconto rendendone noiosi alcuni punti eccessivamente dilatati. In secondo luogo lasciano perplessi alcune scelte registiche che rendono poco credibili personaggi e situazioni : da personaggi rustici delle valli bellunesi non ci si può aspettare che parlino tutti in un correttissimo italiano, addirittura quasi senza inflessioni dialettali venete.
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Una recensione forse un po' troppo benevola che omette ogni riferimento ai difetti del film. E' vero che si tratta sostanzialmente di un buon film, realizzato con grande bravura e professionalità di tutti, ma non si possono non rilevare alcuni aspetti non del tutto positivi. Innanzitutto la vicenda, pur su una buona sceneggiatura, è sviluppata in modo a volte prolisso che appesantisce la fluidità del racconto rendendone noiosi alcuni punti eccessivamente dilatati. In secondo luogo lasciano perplessi alcune scelte registiche che rendono poco credibili personaggi e situazioni : da personaggi rustici delle valli bellunesi non ci si può aspettare che parlino tutti in un correttissimo italiano, addirittura quasi senza inflessioni dialettali venete. Evidentemente si tratta di una scelta di produzione e distribuzione, tuttavia discutibile. Da una pastora-contadina di montagna non ci si potrebbe mai aspettare che si lavi semi-nuda subdolamente lusingata che un ragazzino la guardi di sottecchi; anche questa una astuta scelta di produzione e distribuzione? E poi Pietro viene morso da una vipera... che non è palesemente una vipera (forma e colore non sono quelli di una vipera). Infine quando Domenico va alla cava a portare la pelle dell'orso a Crepaz si vedono i lavoratori della cava intenti a spicconare e sbadilare... sul terreno ai lati della strada (non sulle pendici della cava sui massi di pietra) con azioni improvvisaticce e senza senso. Per ultimo, seppur opinabile, è discutibile anche la scelta di presentare in modo un po' troppo stereotipato l'orso come simbolo assoluto del male, addirittura diabolico e centralità della vicenda, suggerendone anche l'affinità con i personaggi malefico-grotteschi delle sfilate carnevalesche di montagna. Valutazione complessiva **½
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enciclopediavera
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giovedì 7 settembre 2017
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i silenzi della mente
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Un film intenso con una interpretazione della Mascino eccellente. Rimani in silenzio insieme alle immagini che scorrono. Fermo.
E' un film fatto di respiri e sguardi.
Una visione diversa del cinema romano che sta spopolando
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vanessa zarastro
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giovedì 13 luglio 2017
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alla scoperta del rapporto padre/figlio
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L’opera prima di Marco Paolini risente del taglio documentarista del suo regista. Segato, infatti, è un regista teatrale padovano già autore di documentari.
Tratto dal libro omonimo di Matteo Righetti, di cui il regista ha tagliato delle parti importanti (come la tragedia del Vajont) il film, presentato al concorso Annecy Cinéma Italien del 2016, mi sembra essere un po’ naïf nella sua morale.
Siamo negli anni ’50 nella Val di Zoldo in provincia di Belluno. Un orso chiamato “el Diaòl” (cioè “il diavolo”) creduto morto da anni, si fa vedere nel villaggio e attacca una mucca in una stalla.
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L’opera prima di Marco Paolini risente del taglio documentarista del suo regista. Segato, infatti, è un regista teatrale padovano già autore di documentari.
Tratto dal libro omonimo di Matteo Righetti, di cui il regista ha tagliato delle parti importanti (come la tragedia del Vajont) il film, presentato al concorso Annecy Cinéma Italien del 2016, mi sembra essere un po’ naïf nella sua morale.
Siamo negli anni ’50 nella Val di Zoldo in provincia di Belluno. Un orso chiamato “el Diaòl” (cioè “il diavolo”) creduto morto da anni, si fa vedere nel villaggio e attacca una mucca in una stalla.
Gli abitanti vogliono ingaggiare un tiratore scelto per farlo fuori (la caccia all’orso non era permessa neanche allora), ma si va avanti Pietro Sieff (il bravo Marco Paolini), un contadino vedovo che vive con il figlio Domenico quattordicenne (Leonardo Mason), che era uscito dalla galera ed è in cerca di riscatto sociale. Così Pietro e Crepaz (Paolo Pierobon), padrone della cava di pietra locale, scommettono la pelle dell’orso: se Pietro gliela porterà riceverà un premio di 600.00 lire (cifra enorme per l’epoca), ma se perde lavorerà gratis in miniera per un anno.
Pietro s’incammina nel bosco con il suo fucile, ma verrà seguito dal figlio e in questa caccia nascerà, finalmente, un rapporto tra loro fatto di silenzi ma di complicità e di reciproci aiuti. Belle sono le scene in cui Domenico viene sempre più affascinato dalla natura e sembrerebbe perfino instaurare un rapporto speciale con l’orso. Con una bella fotografia e con le splendide e minacciose Dolomiti, La pelle dell’orso rappresenta una notevole durezza dei personaggi e mostra luoghi aspri con una buona suspence e, forse, eccessiva lentezza.
Presentato da Nanni Moretti nel ciclo “Bimbi belli” – e cioè le opere prime di esordienti alla regia – La pelle dell’orso è un film atemporale; la cui vicenda è ambientata in una sacca di sottosviluppo lontana dalla civiltà urbana, dove vige il mito dell’uomo “maschio”, di poche parole e forte, che non ha mai paura e affronta a testa alta la natura. Il film è anche la storia del rapporto tra figlio e padre dove il primo deve imparare a conoscere (e amare) il genitore.
Così scrive Federico Gironi in Coming SOON.it «un film…dalla grande dignità, anche nell’errore. Un film felicemente fuori moda, portatore di istanze antiche e tutte da recuperare: quelle dell’attesa, dell’ascolto, di un’avventura e una ricerca lontane dal clamore e dall’attenzione altrui che è prima di tutto quella dentro di sé».
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eugenio
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mercoledì 16 novembre 2016
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il traumatico passaggio all'età adulta
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Quando il film raggiunge un livello pari a quello del libro, non solo l’intento dell’autore è stato centrato in pieno in fase di sceneggiatura ma l’animo dello spettatore al termine della pellicola si sente appagato, contento e finalmente soddisfatto.
Nel film La pelle dell’orso c’è tutto questo. C’è un riferimento letterario, il bel romanzo di formazione del (prof.) Matteo Righetto, c’è la natura con i suoi paesaggi incantati e lugubri dell’alto Veneto (Dolomiti Bellunesi), c’è l’attenzione al documentario, l’irrequietezza propria dell’adolescente, la comunità chiusa e avulsa da mondo e la scommessa vinta di un cast di attori con Marco Paolini (originario di quelle zone, chi meglio di lui?), Anna Paiato e Paolo Pierobon in testa di grande spessore teatrale.
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Quando il film raggiunge un livello pari a quello del libro, non solo l’intento dell’autore è stato centrato in pieno in fase di sceneggiatura ma l’animo dello spettatore al termine della pellicola si sente appagato, contento e finalmente soddisfatto.
Nel film La pelle dell’orso c’è tutto questo. C’è un riferimento letterario, il bel romanzo di formazione del (prof.) Matteo Righetto, c’è la natura con i suoi paesaggi incantati e lugubri dell’alto Veneto (Dolomiti Bellunesi), c’è l’attenzione al documentario, l’irrequietezza propria dell’adolescente, la comunità chiusa e avulsa da mondo e la scommessa vinta di un cast di attori con Marco Paolini (originario di quelle zone, chi meglio di lui?), Anna Paiato e Paolo Pierobon in testa di grande spessore teatrale.
E’ il romanzo di una caccia ad una Bestia (con la B maiuscola) tanto reale quanto dal profondo significato simbolico, El Diaol, filtrata dagli occhi di un ragazzino, Domenico, timido e introverso, dall’animo sognatore amante della pesca (per certi versi un Tom Sawyer) ma profondamente legato ai lavori di casa e alla scuola, là in Val Fiorentino nella splendida cornice delle Dolomiti bellunesi, e di suo padre Pietro Sieff (Marco Paolini nel film), rozzo quanto burbero e silenzioso col figlio, segnato da un evento luttuoso, la morte della moglie.
Nasce tutto in un’osteria per una scommessa, troppi bicchieri di vino per riscaldare spirito e corpo martoriati dal freddo, una pesante parola culminata nella promessa di uccidere l’orso, bestia “malvagia” quanto indomabile colpevole di numerose razzie sull’altipiano.
Nel conseguente peregrinaggio tra i boschi di padre e figlio, negli appostamenti al freddo, nelle soste con solitari personaggi che vivono a oltre duemila metri di quota (Pepi Zelber) si legge il terribile ed estenuante rito i iniziazione di un giovane adolescente al male inteso come avvicinamento, contatto e scontro con il doloroso mondo adulto, personificato dall’entità “mostruosa”.
La pelle dell’orso non è una favola o un romanzo per ragazzini edificante e positivo; non è nemmeno una parabola eroica, ma rappresenta una sorta di “fiaba nera” torbida e poco consolante, dal velato sostrato biblico sulle colpe dei padri inevitabilmente cadute sui figli, cuccioli inconsapevoli. E’ un romanzo di riscoperta tra padre e figlio perchè Domenico, nell’affannosa ricerca dell’orso, siscontra e si riappacifica col padre, dal carattere burbero solo in superficie, riuscendo finalmente a comprendere i sentimenti (il dialogo tra i due di notte senza vedersi è stupendo) che parevano sopiti dentro quella scorza d’uomo che era diventato.
E’ un romanzo, La pelle dell’orso, infine, che pur nella sua brevità e nelle sue frasi incisive, è necessario per comprendere un territorio, l’alto Veneto, smarrito nella sua identità sociale del secondo dopoguerra (quella che traspare nella seconda parte nel terribile disastro del Vajont), tra quelle montagne in cui ogni cosa si ripete uguale proprio perché senza tempo.
Come il romanzo veicolava con facilità il suo messaggio grazie a periodi brevi, un punto di vista “basso” quello del ragazzino che permetteva una facile immedesimazione, così il film, raggelato nella sua atmosfera di silenzi, evidenzia un concetto tanto caro alla letteratura di ogni tempo, la lotta tra bene e male in cui non esiste vero vincitore ma solo uno sconfitto l’uomo, che non potrà far altro che accettare mai rassegnato, la consapevolezza del male: El diaol,il diavolo, semplicemente.
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catcarlo
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giovedì 10 novembre 2016
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la pelle dell'orso
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Per il suo esordio nel cinema di finzione, il documentarista Segato prende il romanzo del suo conterraneo e quasi coetaneo Matteo Righetto – entrambi sono padovani poco più che quarantenni – e lo fa suo in un film dedicato a Carlo Mazzacurati che, giocando per sottrazione con il racconto di genere, si rivela a sorpresa un’opera tanto affascinante da conquistare nel profondo. Pietro è il reietto del paese: segnato da un oscuro passato che l’ha portato in galera, è guardato di traverso sia al lavoro, sia all’osteria dove esagera col bere. Quando in valle ricompare un orso che attacca il bestiame, egli si offre di dargli la caccia dopo una scommessa al bar, un po’ per il premio in palio – un anno di paga offerto dal suo principale (Paolo Pierobon) – e un po’ per riguadagnare il rispetto dei compaesani.
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Per il suo esordio nel cinema di finzione, il documentarista Segato prende il romanzo del suo conterraneo e quasi coetaneo Matteo Righetto – entrambi sono padovani poco più che quarantenni – e lo fa suo in un film dedicato a Carlo Mazzacurati che, giocando per sottrazione con il racconto di genere, si rivela a sorpresa un’opera tanto affascinante da conquistare nel profondo. Pietro è il reietto del paese: segnato da un oscuro passato che l’ha portato in galera, è guardato di traverso sia al lavoro, sia all’osteria dove esagera col bere. Quando in valle ricompare un orso che attacca il bestiame, egli si offre di dargli la caccia dopo una scommessa al bar, un po’ per il premio in palio – un anno di paga offerto dal suo principale (Paolo Pierobon) – e un po’ per riguadagnare il rispetto dei compaesani. Alla sua ricerca si mette il quattordicenne figlio Leonardo, per lui poco più di un estraneo: solo con estrema fatica e grazie alle inusuali circostanze, il ragazzo riesce a strappare al padre qualche notizia sulla vita del genitore e sul destino della madre morta molti anni prima. Lo svolgimento segue nel modo più classico il percorso di formazione del giovane, già reso più adulto della sua età da un’esistenza non facile, ma inevitabilmente trasformato dall’avventura sulle orme di papà: un’avventura che si sviluppa con un che di western nella solitudine del bosco o su tracce di sentiero appena segnate, immersa in una natura indifferente quando non inquietante nel suo continuo intrecciare la vita e la morte. L’economia di parole dei protagonisti, in primis Pietro, è il segno distintivo dell’intera narrazione (la sceneggiatura è firmata dal regista assieme a Paolini e a Enzo Monteleone) tanto che pure le spiegazioni sono risolte così che siano le più stringate possibili senza che si avverta l’esigenza di ulteriori particolari: tra montanari bastano poche frasi, il resto lo fanno gli sguardi al cospetto di un ambiente scontroso. Le montagne della Val di Zoldo che fanno da sfondo alla vicenda sono fotografate allo scopo di riecheggiare una tale severità, sia quando la luce disegna chiaroscuri a volte inquietanti, sia quando le nuvole avanzano avvolgendole: molto merito va alla forografia di Daria D’Antonio, peraltro altrettanto efficace con i dettagli del sottobosco e, in special modo, con gli ambienti bui in cui le figure sbucano a tutto tondo. Il risultato è che nelle scene ambientate nelle abitazioni o all’osteria si avverte un certo qual sentore di gotico tridentino, accentuato da inquadrature che spesso vanno dal basso verso l’alto: viene così restituito il microcosmo asfittico delle piccole comunità chiuse – siamo a metà degli anni Cinquanta - da cui scaturisce quel marchio da cui Pietro desidera liberarsi. Se tutti i tasselli dal punto di vista di scrittura e tecnico si incastrano alla perfezione, analogo valore aggiunto apporta la prova degli attori: se fra quelli di contorno, spicca Lucia Mascino con la sua irregolare Sara, un Paolini invecchiato sostituisce alla consueta loquela una dura maschera che comunica a fatica mentre l’adolescente Leonardo Mason dimostra una maturità davvero notevole per un esordiente. E poi, ovviamente, c’è l’orso: visto che Segato viene dai documentari, il plantigrado è vero (reclutato in Ungheria), incarnando sfuggente ma pericoloso le insidie del mondo degli adulti che Domenico si trova e si troverà ad affrontare.
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[+] deluso. film noioso
(di giovanni )
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flyanto
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martedì 8 novembre 2016
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un rapporto conflittuale che diviene di crescita p
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Dopo un lungo sodalizio con Marco Paolini nella sua attività teatrale, il regista Marco Segato dirige il suo primo lungometraggio intitolato "La Pelle dell'Orso". Dal titolo si evince già chiaramente che la vicenda ruota tutta intorno alla caccia spietata che viene condotta da un uomo (Marco Paolini) al fine di uccidere un temibile orso che da lungo tempo ormai semina il terrore tra i boschi delle località montane intorno a Cortina, uccidendo in maniera assai violenta il bestiame delle fattorie circostanti. Marco Paolini impersona un uomo solitario, aspro nel carattere, fortemente dedito al bere e con un pessimo rapporto col figlio adolescente rimasto orfano della madre a causa del suo suicidio avvenuto anni addietro quand il suddetto padre stava scontando una pena in carcere.
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Dopo un lungo sodalizio con Marco Paolini nella sua attività teatrale, il regista Marco Segato dirige il suo primo lungometraggio intitolato "La Pelle dell'Orso". Dal titolo si evince già chiaramente che la vicenda ruota tutta intorno alla caccia spietata che viene condotta da un uomo (Marco Paolini) al fine di uccidere un temibile orso che da lungo tempo ormai semina il terrore tra i boschi delle località montane intorno a Cortina, uccidendo in maniera assai violenta il bestiame delle fattorie circostanti. Marco Paolini impersona un uomo solitario, aspro nel carattere, fortemente dedito al bere e con un pessimo rapporto col figlio adolescente rimasto orfano della madre a causa del suo suicidio avvenuto anni addietro quand il suddetto padre stava scontando una pena in carcere. Fatta, quest'ultimo, una scommessa col proprio datore di lavoro in base alla quale egli si impegnerà ad uccidere il terribile orso, dietro ovvia e cospicua somma di denaro, il protagonista partirà da solo alla volta dei boschi per stanare la belva. Raggiunto presto dal figlio il quale vuole anch'egli partecipare alla battuta di caccia, i due si apprestano nel proprio compito, arrivando piano piano, nel corso del tempo limitato alla ricerca dell'animale, ad instaurare finalmente un rapporto di reciproco affetto e comprensione.
Un film di sentimenti, anche simbolico se si vuole accomunare la figura dell'orso solitario e feroce con quella del protagonista stesso, scontroso nel carattere, tenuto a distanza e disprezzato per il suo passato di ex-carcerato dall'intera comunità e con un rapporto in pratica inesistente col proprio figlio e, comunque, un film di scoperta e di riavvicinamento per ciò che riguarda i sentimenti, determinando, proprio a contatto con la natura, il giusto rapporto tra un padre, come figura guida, ed un figlio pronto a prenderne esempio e in un futuro il suo ruolo. Una pellicola dunque minimalista e basata e concentrata principalmente più sugli affetti che piano piano risorgono e si consolidano che sull'azione vera e propria e proprio e per questo molto delicato e commovente. Il tutto, poi, immerso nella magnifica natura suggestiva e preponderante delle Dolomiti, ovviamente acquista un maggior pregio in sè nonchè un maggior impatto sullo spettatore e sicuramente pone una particolare attenzione su questo esordiente e sensibile regista,
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angelo umana
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sabato 5 novembre 2016
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educazione sentimentale
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La locandina del film è promettente, con Marco Paolini e la sua immagine immane sulla natura dolomitica, certi poster e certi nomi promettono già buoni film. Vi è riportata la frase dello scalatore americano Royal Robbins: Le montagne restano immobili, siamo noi che dopo un’avventura non siamo più gli stessi. La frase completa era preceduta da Scalare non serve a conquistare le montagne ma nel film, e nel libro omonimo di Matteo Righetto da cui è tratto, la scalata potrebbe essere quella di Domenico (Leonardo Mason), 14enne che si riavvicina al proprio papà Pietro (Paolini), duro, scorbutico e comunemente ritenuto un fallito nel paesino della Val Zoldana, quella dei “ciodarot” (fabbricatori di chiodi).
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La locandina del film è promettente, con Marco Paolini e la sua immagine immane sulla natura dolomitica, certi poster e certi nomi promettono già buoni film. Vi è riportata la frase dello scalatore americano Royal Robbins: Le montagne restano immobili, siamo noi che dopo un’avventura non siamo più gli stessi. La frase completa era preceduta da Scalare non serve a conquistare le montagne ma nel film, e nel libro omonimo di Matteo Righetto da cui è tratto, la scalata potrebbe essere quella di Domenico (Leonardo Mason), 14enne che si riavvicina al proprio papà Pietro (Paolini), duro, scorbutico e comunemente ritenuto un fallito nel paesino della Val Zoldana, quella dei “ciodarot” (fabbricatori di chiodi). L’avventura che il ragazzo vive è quella di accompagnarlo nella caccia ad un terribile orso, il diaol, ne tornerà più grande, non più bocia. Papà Pietro ha affrontato la terribile impresa per una scommessa dal padrone della cava dove lavora, 600.000 lire se accoppa l’orso, altrimenti lavorerà un anno per lui “a gratis”: non è tipo, Pietro, da riqualificarsi agli occhi del padrone che lo ritiene un cojon, fatto e finito o una bestia ( và a casa!), ma è convinto che altri non sappiano nulla di come cacciare un orso.
Per Pietro sarà un’educazione sentimentale la vicinanza di quel figlio, lui ormai disabituato ad affetti, che ha perso la moglie in circostanze misteriose, che ha vissuto vari anni in galera perché, par di capire, un uomo girava intorno alla sua Caterina, bella e brava moglie ma che con gli uomini non ci sapeva fare e quello …è morto. Domenico deve riconoscere un valore all’uomo scorbutico, pure se vivono nella stessa casa ma ognuno per proprio conto, il ragazzo è solo e ha imparato presto a darsi da fare, lavorare nei campi e tirare col fucile.
L’”impresa” della caccia al diaol sarà cruenta ma tiene naturalmente in ansia per tutto il tempo del film, non si può non parteggiare per quei due e per il loro rapporto, perché si conoscano e Domenico sappia di più della sua mamma mai conosciuta. Le Dolomiti vengono riprese a lungo e lentamente, come ad intercalare il racconto, sono maestose, silenziose e severe, quasi a significare la severità della vita stessa. E’ il primo lungometraggio del regista Marco Segato e tutta la compagnia è veneta verace: ci sono anche Paolo Pierobon e Mirko Artuso, indimenticati attori di Piccola Patria, come la apparentemente coriacea Lucia Mascino, qui dai tratti duri di montagna ma dal cuore tenero. Il film è una piccola perla.
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gaiart
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sabato 29 ottobre 2016
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non vendere la pelle dell'orso prima di ucciderlo
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Le montagne restano immobili, siamo noi che dopo un’avventura non siamo più gli stessi. R. Robbins
La saggezza popolare dice che non bisogna vendere la pelle dell’orso prima di ucciderla. In realtà, La pelle dell’orso, con la regia di Marco Segato e Marco Paolini, in uscita il 3 novembre, rappresenta un’antitesi al detto e funge anche da metafora della vita.
Un po’ come nelle sconsolate vedute di genere di Caspar David Friedrich, in cui l’uomo solo si staglia tra vette della natura impervia e la sua immensità, il film con bellissimi scenari narra la storia di un’aspra comunità montana delle dolomiti, afflitta da un orso feroce, detto el Diaol che, con incursioni notturne, uccide il bestiame e terrorizza i poveri abitanti.
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Le montagne restano immobili, siamo noi che dopo un’avventura non siamo più gli stessi. R. Robbins
La saggezza popolare dice che non bisogna vendere la pelle dell’orso prima di ucciderla. In realtà, La pelle dell’orso, con la regia di Marco Segato e Marco Paolini, in uscita il 3 novembre, rappresenta un’antitesi al detto e funge anche da metafora della vita.
Un po’ come nelle sconsolate vedute di genere di Caspar David Friedrich, in cui l’uomo solo si staglia tra vette della natura impervia e la sua immensità, il film con bellissimi scenari narra la storia di un’aspra comunità montana delle dolomiti, afflitta da un orso feroce, detto el Diaol che, con incursioni notturne, uccide il bestiame e terrorizza i poveri abitanti.
Così un uomo Pietro, (Marco Paolini), già orso di per sè, solo, senza amici, problematico, alcolista e piegato anche da una natura violenta, decide di vendere per 600 mila lire la pelle dell’orso che spera di catturare da solo. Il figlio Domenico chiuso, quattordicenne e orfano di madre, preoccupato, decide di seguirlo nell’avventura tra i boschi verso l’orso.
A un certo punto s’innesta una donna, figura femminile creativa e libera per contrasto, interpretata da Lucia Mascino. Essa è come una specie di enzima che velocizza il processo difficile e inesistente tra padre e figlio, riuscendo a legare, a scaldare quel gelo non solo fisico, ma anche emotivo che viene comunicato.
Questo è un film sottile, di genere, avventuroso, una sorta di western alpino. Rimane misterioso, tanto che lo spettatore non ottiene tutte le informazioni che vorrebbe avere e getta uno sguardo su un mondo chiuso, le montagne del bellunese negli anni 50, dove tutti sanno tutto sugli altri, ma agli estranei non si dice nulla. Pertanto anche allo spettatore, che è come un forestiero, non si deve dire troppo.
Il punto focale del film - dice Paolini - era quello di riuscire a mettere insieme due creature, una misteriosa e selvaggia, un orso degli anni 50 che non esisteva più e un uomo bestiale e il suo rapporto forte con la natura impervia.
Grazie anche a un’ottima fotografia che rende veritiero e intenso il rapporto con gli animali, coi prati e monti il film, che ha già vinto tre premi in Francia,è riuscito a trasmettere dei contenuti costruiti su sfumature senza ostentarle palesemente o svelarle del tutto e lasciando allo spettatore un rapporto privato con luci ed ombre di natura e sentimento.
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[+] noioso
(di phyllos)
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