angelo umana
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venerdì 11 marzo 2016
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cinema di testimonianza
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Fuocoammare: quando un film fotografa la realtà senza mischiarla con opinioni. Questo fà Gianfranco Rosi, se ne stà a lungo nei posti che vuole “raccontare” e le immagini sommuovono più di mille parole. Eccoci servita un’altra testimonianza, da Lampedusa: la cinepresa pare essere collocata in un angolo discreto, asettica e neutrale, e lascia parlare gli avvenimenti, nessun rumore oltre quelli della realtà dell’isola. Solo le parole di un medico che presta i primi soccorsi agli immigrati appena sbarcati: se sei un uomo non puoi ignorare.
Viene ripresa la vita del paese con i residenti che conducono la loro esistenza pacifica senza ribellarsi agli arrivi continui di persone al limite della disperazione, senza sbraitare come spesso avviene in altri angoli d’Italia dove comunque si continua ad avere i ns.
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Fuocoammare: quando un film fotografa la realtà senza mischiarla con opinioni. Questo fà Gianfranco Rosi, se ne stà a lungo nei posti che vuole “raccontare” e le immagini sommuovono più di mille parole. Eccoci servita un’altra testimonianza, da Lampedusa: la cinepresa pare essere collocata in un angolo discreto, asettica e neutrale, e lascia parlare gli avvenimenti, nessun rumore oltre quelli della realtà dell’isola. Solo le parole di un medico che presta i primi soccorsi agli immigrati appena sbarcati: se sei un uomo non puoi ignorare.
Viene ripresa la vita del paese con i residenti che conducono la loro esistenza pacifica senza ribellarsi agli arrivi continui di persone al limite della disperazione, senza sbraitare come spesso avviene in altri angoli d’Italia dove comunque si continua ad avere i ns. pasti ogni giorno tranquilli, dove badiamo alle ns. cosette da mondo sviluppato, e solo guardando immagini televisive o notizie ci sentiamo invasi, minacciati nel ns. welfare, “ci rubano il lavoro e i ns. sussidi!” E’ proprio vero che gente umile sa accogliere di buon grado altri bisognosi, come avviene attualmente in Grecia: non sembra che nelle regioni più povere i residenti sbraitino tanto come in altre più ricche per questa “invasione”.
Lecite le lacrime di Meryl Streep nell’assegnare l’Orso d’Oro 2016 di Berlino a questo documentario, sarà stata anche una scelta politica o del momento giusto ma Angela Merkel vedendolo si sarà convinta ancora di più della sua scelta di accoglienza, pagheranno le ns. pensioni questi invasori, mentre i ns. 5 milioni di residenti stranieri in Italia in parte già lo fanno. Ora non resta che aspettare che da Mattarella a Papa Francesco (già più accogliente), dalla Camera al Senato e dai numerosi palazzi della politica alla pubblica amministrazione si stringano un po’, facciano più piccoli e sobri gli uffici dei loro dirigenti e lascino posto a chi ha perso tutto: vivranno per un po’ della ns. carità, degli avanzi di cibo e abiti che buttiamo via ogni giorno per ripulire le ns. dispense e per rinnovare i ns. armadi. Non resta poi che aspettare che altri ventriloqui come quel ragazzone dalla faccia intelligente, Salvini (che parla con la pancia alle pance delle persone), trovino spazio tra un’ospitata in tv e l’altra per vedersi questo film.
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nerone bianchi
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sabato 5 marzo 2016
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la buccia di banana
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Non è un documentario, non è un film, non parla del dramma dell'emigrazione, non parla di Lampedusa, allora cos'è e di cosa parla questo celebrato film che ha conquistato l'orso d'oro di Berlino? Parla di un isola, di un bambino simpatico, di un dottore in prima linea, di tanti disperati, di un ritmo di vita diverso. Le immagini sono molto belle, quelle in mare ancora di più, la scelta di non utilizzare musica ma solo rumori reali è bella anch'essa, il non utilizzare attori ma gente comune è spiazzante. Il radar che gira nella notte, la vecchia signora che rifà il letto, il ragazzino che prova gli occhiali, sono immagini che restano. Il film sfida la capacità umana di attenzione e alla lunga perde.
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Non è un documentario, non è un film, non parla del dramma dell'emigrazione, non parla di Lampedusa, allora cos'è e di cosa parla questo celebrato film che ha conquistato l'orso d'oro di Berlino? Parla di un isola, di un bambino simpatico, di un dottore in prima linea, di tanti disperati, di un ritmo di vita diverso. Le immagini sono molto belle, quelle in mare ancora di più, la scelta di non utilizzare musica ma solo rumori reali è bella anch'essa, il non utilizzare attori ma gente comune è spiazzante. Il radar che gira nella notte, la vecchia signora che rifà il letto, il ragazzino che prova gli occhiali, sono immagini che restano. Il film sfida la capacità umana di attenzione e alla lunga perde. La mancanza di un tessuto narrativo è la buccia di banana su cui il pur coraggioso tentativo cade. Lo scorrere delle immagini alla fine diventa prevedibile e la curiosità visiva, non trovando nello svolgersi di una storia appigli su cui ripartire, langue e le palpebre cominciano a scendere e quando questo accade bisogna prenderene atto, senza troppi perchè e per come.
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[+] tessuto narrativo
(di angelo umana)
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catcarlo
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giovedì 3 marzo 2016
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fuocoammare
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un’opera complessa che rifiuta chiavi di lettura immediate già dal suo non essere documentario ma neppure finzione: la parte narrativa che illustra la vita di ogni giorno degli abitanti di Lampedusa viene utilizzata per mettere in risalto gli orrori che avvengono davanti alla loro (e alla nostra) porta di casa senza inutili pietismi o commozioni a comando, sebbene non manchino i passaggi crudeli. Si capisce allora perché il regista abbia trascorso un anno sull’isola: solo una completa condivisione del vissuto regala la capacità di raccontarlo dal di dentro fondendo realtà e poesia. Il filo conduttore è il piccolo Samuele, ragazzino isolano che preferisce la terra al mare che gli ribalta lo stomaco e dove non sa come comportarsi: molto meglio andare a giocare con la fionda prendendo di mira pale di cactus (poi riparate) e nidi d’uccelli, con quel problema dell’occhio pigro al quale si può ovviare con la determinazione.
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un’opera complessa che rifiuta chiavi di lettura immediate già dal suo non essere documentario ma neppure finzione: la parte narrativa che illustra la vita di ogni giorno degli abitanti di Lampedusa viene utilizzata per mettere in risalto gli orrori che avvengono davanti alla loro (e alla nostra) porta di casa senza inutili pietismi o commozioni a comando, sebbene non manchino i passaggi crudeli. Si capisce allora perché il regista abbia trascorso un anno sull’isola: solo una completa condivisione del vissuto regala la capacità di raccontarlo dal di dentro fondendo realtà e poesia. Il filo conduttore è il piccolo Samuele, ragazzino isolano che preferisce la terra al mare che gli ribalta lo stomaco e dove non sa come comportarsi: molto meglio andare a giocare con la fionda prendendo di mira pale di cactus (poi riparate) e nidi d’uccelli, con quel problema dell’occhio pigro al quale si può ovviare con la determinazione. Le sue avventure di bambino che cresce in fretta, tra attimi di tenerezza e momenti di aggressività, si sviluppa tra adulti immersi nella quotidianità, dalla donna che prepara il letto con gesti di una precisione antica e il pescatore di ricci che si immerge con qualsiasi tempo in sessioni subacquee che paiono infinite e ben rappresentano la tendenza dell’autore all’anticlimax: lo spettatore è spinto ad attendersi che gli abissi celino qualche orrore, ma nulla accade mentre l’unico collegamento visibile con i migranti finisce per essere il dottor Bartolo, che cura sia Samuele sia, con angoscia crescente, l’umanità disperata in arrivo. Bastano il suo racconto e due scene a restituire appieno la tragedia: il ragazzo nigeriano che canta come un gospel il viaggio suo e dei compagni di sventura costringe a immaginare, ma il recupero dell’ennesimo barcone è esplicito al limite del dolore fisico, con quell’ultima inquadratura della stiva criticata perché troppo cruda e invece indispensabile. Se la materia è importante e trattata con intelligenza, altrettanto significativo è il modo di raccontarla attraverso le immagini che lo stesso Rosi ha girato dando la preferenza a una Lampedusa oppressa da un clima ostile in cui spiccano grassi nuvoloni bluastri e il vento teso, quasi che ci si trovasse nel Canale d’Irlanda piuttosto che in quello di Sicilia. Il montaggio di Jacopo Quadri assembla il materiale con stacchi netti che mettono in contrasto l’agitazione che circonda chi arriva (tra i flutti come nel centro di accoglienza) con gli squarci di vita quotidiana ripresi attravreso una macchina da presa sovente ferma che evoca talvolta lo sguardo di Ciprì e Maresco, ma senza cattiveria chè qui risulterebbe fuori posto. In una di queste circostanze, la nonna racconta a Samuele che il fuoco in mare significa disgrazia, perché solo l’uomo in guerra ve lo porta, e, subito dopo, il disc-jockey della radio locale - che costruisce una colonna sonora di brani tradizionali - trasmette la canzone che intitola il film mentre l’attenzione si rivolge alle navi che pattugliano in cerca di naufraghi. Simili incastri sono la struttura stessa della narrazione, una ragion d’essere che si limita a suggerire echi e paralleli che lo spettatore è portato di sviluppare con un lavoro di partecipazione che collabora a rendere la visione un’esperienza tanto coinvolgente quanto difficile da dimenticare.
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cosmo15
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giovedì 3 marzo 2016
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cinico
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Questo film abbastanza noioso, (malgrado alcune scene) mi pare cinico e manipolatore. Cinico perché il solo scopo del film sembra essere quello di filmare l'incongruenza tra la vita tranquilla di alcuni isolani e la tragedia dei migranti. Tutto cio' è filmato con lo stesso impassibile atteggiamento di un film sulla giungla : da una parte i leoni che sbranano delle povere gazelle, e dall'altra degli uccellini su di un albero che vivono felici, fuori pericolo. Non c'è nessuna empatia verso la tragedia in corso, né spiegazione per farci capire meglio i percorsi umani dei protagonisti. C'è più empatia con il ragazzino che neanche è cosciente della tragedia che si svolge a due metri da casa sua! Ingiusto, quando tutti sanno tra l'altro che i lampedusani sono una popolazione molto collaborativa e generosa rispetto a questo specifico fenomeno.
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Questo film abbastanza noioso, (malgrado alcune scene) mi pare cinico e manipolatore. Cinico perché il solo scopo del film sembra essere quello di filmare l'incongruenza tra la vita tranquilla di alcuni isolani e la tragedia dei migranti. Tutto cio' è filmato con lo stesso impassibile atteggiamento di un film sulla giungla : da una parte i leoni che sbranano delle povere gazelle, e dall'altra degli uccellini su di un albero che vivono felici, fuori pericolo. Non c'è nessuna empatia verso la tragedia in corso, né spiegazione per farci capire meglio i percorsi umani dei protagonisti. C'è più empatia con il ragazzino che neanche è cosciente della tragedia che si svolge a due metri da casa sua! Ingiusto, quando tutti sanno tra l'altro che i lampedusani sono una popolazione molto collaborativa e generosa rispetto a questo specifico fenomeno. Qual'è il vero senso di questo film? E perché è un film manipolatore : se fosse solo un film sul ragazzino buffo che vive sull'isola sarebbe alla fine un po' stancante, e non avrebbe una diffusione da nessuna parte (ma sarebbe stato più coerente per mostrare la tesi del regista, ovvero che le tragedie dei migranti non influiscono sulla sua vita). Rosi ha inserito delle immagini scioccanti sui migranti, come per esempio il piano sequenza sui cadaveri nella barca, per dare l'impressione che si preoccupa di un soggetto emblematico, e che il film è impegnato. Ma il film non è che un puro esercizio cerebrale, e la cinepresa impassibile non ci spiega nulla. I migranti sono delle gazzelle sbranate dai leoni, "c'est la vie", cosi' è la natura, non ci si puo' far nulla... E il pubblico dei festival si sente "intelligente" e "impegnato", continuando a non capire nulla.
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gambadilegnodinomesmith
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giovedì 3 marzo 2016
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i quattrocento morti
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Due umanità diversamente abbandonate, quella dei migranti e quella degli isolani, mostrate senza un confronto vero e proprio o un punto d'incontro, se non nell'emblematico ruolo di un medico restituito però marginalmente e nella disgraziata contiguità geografica, data talmente per appurata da non risultare mai. Da una parte seguiamo un empatico frammento del racconto di formazione di un bambino, un Truffaut in stretto dialetto dello stretto siciliano, dall'altra qualche inquadratura documentaristica del racconto di disin-formazione dei migranti, due diversi tipi di sopravvivenze alla quotidianità dell'esistenza. Opera solipsistica, che decide di affrontare una tematica drammaticamente nota da una via obliqua, da un punto di vista talmente diverso che la tematica non l'affronta affatto, lasciando sottintendere con l'alibi del documentario una serie di considerazioni che non vengono espresse, riducendo il tema migratorio potenzialmente esplosivo a un pretesto favolistico per parlare poeticamente di altro, trasformando il film in un esercizio di stile su un argomento furbescamente in voga.
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Due umanità diversamente abbandonate, quella dei migranti e quella degli isolani, mostrate senza un confronto vero e proprio o un punto d'incontro, se non nell'emblematico ruolo di un medico restituito però marginalmente e nella disgraziata contiguità geografica, data talmente per appurata da non risultare mai. Da una parte seguiamo un empatico frammento del racconto di formazione di un bambino, un Truffaut in stretto dialetto dello stretto siciliano, dall'altra qualche inquadratura documentaristica del racconto di disin-formazione dei migranti, due diversi tipi di sopravvivenze alla quotidianità dell'esistenza. Opera solipsistica, che decide di affrontare una tematica drammaticamente nota da una via obliqua, da un punto di vista talmente diverso che la tematica non l'affronta affatto, lasciando sottintendere con l'alibi del documentario una serie di considerazioni che non vengono espresse, riducendo il tema migratorio potenzialmente esplosivo a un pretesto favolistico per parlare poeticamente di altro, trasformando il film in un esercizio di stile su un argomento furbescamente in voga. L'occhio pigro del regista si limita a non dare risposte, come è giusto che sia, e non porre domande, lasciandoci semplicemente il ricordo divertito delle peripezie del piccolo Samuele.
Un'operazione poetica che non mette a fuoco nulla, nemmeno ammare.
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vanessa zarastro
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mercoledì 2 marzo 2016
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come si cresce a lampedusa nonostante i migranti
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Il titolo completo del film, a mio avviso, dovrebbe essere: “Fuocoammare, ovvero come si cresce a Lampedusa nonostante i migranti”. Rosi per girare il film ha vissuto un anno sull’isola, ha esaminato bene i problemi e ha conosciuto a fondo le persone del luogo. Il film, infatti, presenta due storie, o meglio due situazioni, che scorrono parallelamente nell’isola senza incontrarsi. Samuele è il bambino dodicenne nato e cresciuto sull’isola il cui padre fa il pescatore e vivono entrambi con i nonni paterni. È una descrizione poetica di una vita fatta di nulla o di piccole cose che ricorda un po’ l’infanzia e l’adolescenza di mezzo secolo fa, senza troppe tecnologie (non c’è neanche un cellulare in tutto il film) fatta di giochi all’aperto, di fionde auto-costruite, di uccellini di notte, di motorini e di barche a remi.
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Il titolo completo del film, a mio avviso, dovrebbe essere: “Fuocoammare, ovvero come si cresce a Lampedusa nonostante i migranti”. Rosi per girare il film ha vissuto un anno sull’isola, ha esaminato bene i problemi e ha conosciuto a fondo le persone del luogo. Il film, infatti, presenta due storie, o meglio due situazioni, che scorrono parallelamente nell’isola senza incontrarsi. Samuele è il bambino dodicenne nato e cresciuto sull’isola il cui padre fa il pescatore e vivono entrambi con i nonni paterni. È una descrizione poetica di una vita fatta di nulla o di piccole cose che ricorda un po’ l’infanzia e l’adolescenza di mezzo secolo fa, senza troppe tecnologie (non c’è neanche un cellulare in tutto il film) fatta di giochi all’aperto, di fionde auto-costruite, di uccellini di notte, di motorini e di barche a remi.
Il film, girato molto su tempi reali, riesce a trasmettere il disagio del passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, fatto di paure, di miti dell’uomo forte (papà ma tu soffrivi di mal di mare da piccolo?), di dubbi e incertezze tra la caccia agli animali e la loro amicizia. Anche la lentezza delle scene comunica la lunghezza delle giornate e una certa noia quotidiana che ognuno di noi può ricordare dei propri malesseri pre-adolescenziali.
Così le scene negli interni: la nonna che cucina, la nonna che cuce, i nonni che prendono il caffè, il pranzo con gli spaghetti e le seppie, il rifacimento quotidiano del letto, hanno dei tempi lunghissimi, a mio avviso anche un po’ eccessivi.
L‘altra storia, invece, è fatta di vite salvate, di barconi arrivati, di accoglimento e identificazione (con i numeri) dei migranti. Le due storie si alternano nel montaggio inframezzati dalla radio locale che trasmette musiche (per lo più canzoni siciliane) che i radioamatori scelgono e dedicano ai loro cari. L’unico elemento in comune è l’assistenza del dott. Pietro Bartolo, direttore dell’ASL di Lampedusa da una trentina d’anni, che accudisce gli abitanti così come si occupa, con amore e sofferenza, di tutti coloro che giungono via mare dal continente africano non abituandosi mai al dolore e alla morte.
I tempi lenti descrivono la vita del sud in generale con le sue lentezze nei gesti, tempo e spazio isolani lontani mille miglia dalla cosiddetta “civiltà” continentale o, tantomeno, metropolitana. Le scene sono bellissime, inquietanti e commoventi pur senza descrivere o indugiare sulle disgrazie.
Rosi sembra sempre accennare ai temi senza mai scavarli a fondo a metà tra il documentario e il film (ma li chiamano docu-film appunto?) e riconosco in questo gli stessi elementi riscontrati nel suo “Sacro G.R.A.” anche nelle scelte che non condivido. Anche lì ci sono vari mondi, quello interno nelle case, quelli nei vari luoghi vissuti dagli abitanti (il botanico, il nobile piemontese e sua figlia laureanda, un barelliere, il pescatore di anguille…le pecore) a ridosso del raccordo; tutti questi mondi sono in contrapposizione a un altro più alluso che è proprio la vita dell’autostrada. Ma quello era un documentario (sui generis) che durava 93’.
C’è, a mio avviso, qualcosa nel montaggio dei suoi film che non convince e che mi lascia perplessa: come fosse un po’ artificioso, si sente pensato a tavolino, che toglie scorrevolezza e naturalezza ai suoi lavori. Ciononostante Rosi ha sicuramente meritato il riconoscimento dell’Orso d’oro 2016 a Berlino e che ha accolto così: «Dedico il premio a tutte le persone che non sono riuscite ad arrivare su quest’isola nel loro viaggio della speranza, e ai lampedusiani che dai primi sbarchi del 1991 accolgono chi scappa dalla fame e dalle guerre. È un posto di pescatori che accetta tutto quello che viene dal mare. Una lezione che dovrebbe essere imparata da tutti. Non è accettabile che la gente muoia in fuga dalle tragedie».
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howlingfantod
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mercoledì 2 marzo 2016
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lampedusa per la pace
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Forse dopo aver visto questo film, incontrando qualcuno dei tanti nostri fratelli dal colore della pelle diversa nelle nostre città si penserà che siano dei miracolati o dei frutti della selezione naturale, pensando a quello che hanno passato per essere sopravvissuti. Non è un docu-film che ci rischiara la vista, ci ripulisce o che ci serve da politically correct come dispensatore di facili assoluzioni, è una cosa scomoda che ci può solo disturbare, la schiettezza documentaristica del racconto aggiunge un senso di immedesimazione sparuto eppure tenero e umanissimo nello sguardo dei personaggi, il bambino, il medico, la donna. Da ultimo ma non per ultimo è un doveroso omaggio alla splendida gente di Lampedusa alla quale si spera venga davvero assegnato il meritatissimo Nobel per la pace che dovrebbe essere riconosciuto a costoro che da anni sono testimoni della tragedia che accade davanti a loro e della quale si rendono compartecipi con i loro sforzi di solidarietà e umanissima pietà, un premio vivo e vegeto e purtroppo attuale e doveroso, prima che magari che per un qualche intervento divino, non credo purtroppo umano, questo olocausto di esseri umani che muoiono davanti alle loro spiagge non abbia fine e che rimanga, questo sì come probabile prodotto umano, solamente il giro turistico sull’isola di Lampedusa a Cala Ponente ed agli altri luoghi dei naufragi come in un qualsiasi supermarket.
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Forse dopo aver visto questo film, incontrando qualcuno dei tanti nostri fratelli dal colore della pelle diversa nelle nostre città si penserà che siano dei miracolati o dei frutti della selezione naturale, pensando a quello che hanno passato per essere sopravvissuti. Non è un docu-film che ci rischiara la vista, ci ripulisce o che ci serve da politically correct come dispensatore di facili assoluzioni, è una cosa scomoda che ci può solo disturbare, la schiettezza documentaristica del racconto aggiunge un senso di immedesimazione sparuto eppure tenero e umanissimo nello sguardo dei personaggi, il bambino, il medico, la donna. Da ultimo ma non per ultimo è un doveroso omaggio alla splendida gente di Lampedusa alla quale si spera venga davvero assegnato il meritatissimo Nobel per la pace che dovrebbe essere riconosciuto a costoro che da anni sono testimoni della tragedia che accade davanti a loro e della quale si rendono compartecipi con i loro sforzi di solidarietà e umanissima pietà, un premio vivo e vegeto e purtroppo attuale e doveroso, prima che magari che per un qualche intervento divino, non credo purtroppo umano, questo olocausto di esseri umani che muoiono davanti alle loro spiagge non abbia fine e che rimanga, questo sì come probabile prodotto umano, solamente il giro turistico sull’isola di Lampedusa a Cala Ponente ed agli altri luoghi dei naufragi come in un qualsiasi supermarket.
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icilio
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mercoledì 2 marzo 2016
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un po' più di un documentario, un po' - di un film
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Un buon prodotto italiano sull'estrema realtà italiana.
Vita - e morte - alle estreme condizioni affiancata ad una realtà isolana quasi ferma nella sua monotonia, documentario efficace empatico, ma non strappalacrime, e piccola commedia della vita quotidiana di un'isola ai confini tra il territorio italiano e quello africano. Grande fotografo e bravo regista. Bravi e spontanei gli attori lampedusani, soprattuto i bambini.
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m.barenghi
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lunedì 29 febbraio 2016
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... per svegliare l'orso berlinese dal letargo
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Orso d'oro a Berlino, tanto per lavarsi un po' la coscienza dalla colpevole miopia dimostrata dall'Europa negli anni recenti, di cui è felicissima metafora "l'occhio debole" di Samuele Pucillo, il giovane lampedusano protagonista di "Fuocoammare". Un anno di vita in Lampedusa per raccogliere il materiale filmico -poi mirabilmente montato- servito per questo documentario, apparentemente slegato, in realtà perfetto nel definire le singole componenti che stanno partecipando alla tragedia di quest'isola.
Da un lato gli isolani, gente di mare che da sempre rispetta in modo sacrale ciò che dal mare le proviene.
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Orso d'oro a Berlino, tanto per lavarsi un po' la coscienza dalla colpevole miopia dimostrata dall'Europa negli anni recenti, di cui è felicissima metafora "l'occhio debole" di Samuele Pucillo, il giovane lampedusano protagonista di "Fuocoammare". Un anno di vita in Lampedusa per raccogliere il materiale filmico -poi mirabilmente montato- servito per questo documentario, apparentemente slegato, in realtà perfetto nel definire le singole componenti che stanno partecipando alla tragedia di quest'isola.
Da un lato gli isolani, gente di mare che da sempre rispetta in modo sacrale ciò che dal mare le proviene. E si sforza di proseguire la propria vita nonostante siano circondati sopra e sotto la superficie marina dai segni tangibili della tragedia migratoria. E nonostante la radio locale si ostini a prediligere la messa in onda di canzoni folkloristiche (fra cui appunto "Fuocoammare" del titolo) a gentile richiesta dei radioascoltatori piuttosto che i notiziari, che assomiglierebbero sempre di più a veri e propri bollettini di guerra. Come in "Terraferma" di Crialese, la scelta è PER la vita: ce lo dice la stupenda (e vera!!) figura del medico Dr. Bartolo, acclamato come una star a Berlino sul palco delle premiazioni, dove l'ha voluto a tutti i costi lo stesso regista. Un uomo che deve confrontarsi quotidianamente in prima persona con la morte e il dolore (ancora il "fuocoammare" nella immagine del ragazzino nero ustionato dal carburante). E ancora ce lo dice lo stesso Samuele nella stupenda sequenza in cui compare l'unico uccellino del film, cui il ragazzo sceglie di non tirare con la fionda ma di coccolarlo carinamente con un bastoncino. Alla fine del film, sul pontile, Samuele sparerà ancora al nulla con il suo "braccio-mitragliatore" ma finalmente questo gesto assumerà la valenza di un gioco, come tirare ai barattoli con la fionda, e non di uno scarico di aggressività.
Dall'altro lato i migranti, e non solo quelli che sopravvivono alla traversata: la sequenza in cui la camera scende "agli inferi" nella stiva dell'ultima scialuppa soccorsa, immergendosi coraggiosamente in mezzo a veri cadaveri, è una delle scene più shoccanti e commoventi mai viste al cinema! Quelli che sopravvivono, però, vogliono anch'essi continuare a far parte della vita, piangendo i propri defunti, raccontando la propria tragedia migratoria (nella lamentazione del nigeriano sembra di rivivere le pagine africane del bellissimo "Bilal", di Fabrizio Gatti), o organizzando nel Centro di prima accoglienza uno pseudocampionato di calcio per nazioni, che li aiuti ad ingannare un tempo che si sta facendo lunghissimo.
Così come avviene nella realtà della vita isolana, i due mondi restano però separati, come da paratie stagne. Trapela l'umanità delle persone coinvolte nelle operazioni di salvataggio e assistenza: "nessuno può chiamarsi uomo se non accorre in aiuto delle persone che ne hanno bisogno" è la frase che pronuncia con voce strozzata dal pianto il Dr. Pietro Bartolo, il cui dolore nella sequenza più toccante del film è addirittura palpabile.
Da non perdere!!!!
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stefano capasso
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lunedì 29 febbraio 2016
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le tradizioni che salvano
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A Lampedusa c’è un giovane ragazzo, Samuele, che vive la sua vita a stretto contatto con la natura e le tradizioni locali, come del resto molte delle persone intorno a lui. In un'altra parte dell’isola ci sono tanti uomini costantemente impegnati nel salvataggio dei migranti che dai barconi lanciano sos: una battaglia drammatica contro il tempo che ha successo solo in parte.
Gianfranco Rosi racconta in questo bellissimo documentario, Lampedusa e la grande contraddizione che va in scena ogni giorno. Da una parte una comunità ancora in gran parte legata alle tradizioni, che vive come hanno sempre vissuto da secoli gli abitanti, dove i giovani hanno il tempo di giocare e sognare e gli adulti lavorano per mandare avanti la famiglia, dall’altra le vicende strazianti dei migranti che tutto questo hanno perso e che in qualche modo cercano.
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A Lampedusa c’è un giovane ragazzo, Samuele, che vive la sua vita a stretto contatto con la natura e le tradizioni locali, come del resto molte delle persone intorno a lui. In un'altra parte dell’isola ci sono tanti uomini costantemente impegnati nel salvataggio dei migranti che dai barconi lanciano sos: una battaglia drammatica contro il tempo che ha successo solo in parte.
Gianfranco Rosi racconta in questo bellissimo documentario, Lampedusa e la grande contraddizione che va in scena ogni giorno. Da una parte una comunità ancora in gran parte legata alle tradizioni, che vive come hanno sempre vissuto da secoli gli abitanti, dove i giovani hanno il tempo di giocare e sognare e gli adulti lavorano per mandare avanti la famiglia, dall’altra le vicende strazianti dei migranti che tutto questo hanno perso e che in qualche modo cercano. La dolcezza la semplicità e la grande vitalità di Samuele si contrappongono alle storie di queste donne e questi uomini che hanno oltrepassato i limiti di quello che è umano alla ricerca di una vita vivibile. Il tutto raccontato con una grande semplicità di linguaggio, rigorosamente descrittivo, che non cede mail al tentativo di drammatizzare una storia che alterna vita e morte.
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