paolo_89
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martedì 19 febbraio 2013
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un tenero magliaro
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Benito e Pietro sono due itaker, italianacci emigrati in Westfalia negli anni '60 del miracolo economico tedesco. Il primo è un ex galeotto, il secondo è un bambino di 9 anni che ha appena perso la madre. Sono partiti insieme per la Germania perchè devono ritrovare il padre di Pietro, emigrato molto tempo prima; ma questa storia sembra solo una scusa.
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Benito e Pietro sono due itaker, italianacci emigrati in Westfalia negli anni '60 del miracolo economico tedesco. Il primo è un ex galeotto, il secondo è un bambino di 9 anni che ha appena perso la madre. Sono partiti insieme per la Germania perchè devono ritrovare il padre di Pietro, emigrato molto tempo prima; ma questa storia sembra solo una scusa. Benito, infatti, vuole tornare nella baraccopoli operaia di Bochum dove lavorava, prima di finire in un carcere italiano, per coprire la sua attività di magliaro. Il suo boss Pantanò, napoletano come lui, sembra volergli concedere quest'opportunità e lo manda di nuovo a contrabbandare stoffe per la Westfalia del Nord.
Due riferimenti emergono spontaneamente guardando le prime sequenze di Itaker: I magliari (Francesco Rosi, 1959) e Cafè Express (Nanni Loy, 1980). Il primo paragone si spiega da sé mentre il secondo è meno immediato. Ci vuole qualche minuto per carburare e rendersi conto che il napoletano Benito Stigliano, interpretato in modo credibilissimo da Francesco Scianna, ricorda seppur vagamente Nino Manfredi, anch'egli a spasso con un ragazzino che è sia un peso che una compagnia. Non sono riferimenti azzardati perchè Itaker, a una prima visione e sicuramente anche alle successive, è un bellissimo film. I particolari che colpiscono prima degli altri sono i colori: freddi, spenti, illustrano in modo appropriato il tono dominante della vicenda, abbandono e ricerca di una famiglia al tempo stesso. Le musiche accompagnano con discrezione e molta malinconia i personaggi che, se potrebbero cadere facilmente in degli stereotipi, si reggono invece in piedi senza fatica. Tutto ciò non è che la cornice di una sceneggiatura, scritta a sei mani, con molta cura: l'ambientazione è lasciata intuire e mai segnalata esplicitamente, fatta eccezione per una o due battute nei primi minuti. Ogni evento, ogni parola, ogni situazione non è mai isolata, trova sempre un elemento che la completa o che ne spiega il senso: non se ne citerà nessuno per non fare il minimo spoiler. Il rapporto tra Pietro e Benito cresce spontaneamente e rispettando i giusti tempi di lievitazione, senza trasformare la storia di un emigrante in un trattato sociologico o in una caricatura. Non manca poi la linea narrativa amorosa, antidoto necessario alle sofferenze dei due itaker che le ronzano attorno e fulcro di altri conflitti, che spingeranno Benito a prendere la sua decisione finale.
Non è facile raccontare la storia di un operaio immigrato con un figlio acquisito cui badare: il sentimentalismo è sempre in agguato. In questo caso, i toni tragici sono diluiti con molta maestria in momenti più sereni, in cui non si può non sorridere.
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siebenzwerg
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lunedì 3 dicembre 2012
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una favola agrodolce
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È una favola affascinante quella che ha come protagonista il bambino Pietro, montanaro, che resta senza la mamma e cerca il padre emigrato in Germania di cui non sa più nulla. Una favola che va presa così come tale. Incontra figure quasi felliniane di un mondo troppo adulto per lui con le quali ha intense relazioni. Il bimbo protagoista è delizioso. La storia non ha ambizioni di realismo e se le avesse ce le scordiamo subito, la scenografia urbana girata in Romania è interessante e suggestiva ma forse un po' troppo da Germania anno zero; i costumi sembrano un arsenale di guardaroba e acconciature mescolate dagli anni '40 agli annoìi '70; la ragazza rumena, che i nostri eroi incontrano in Germania, non fa cenno al regime comunista da cui immagino dovrà essere fuggita, parla e si comporta come un'emigrata di oggi, senza tenere conto che allora, prima della caduta del Muro, dai paesi dell'Est non si emigrava, ma solo si "scappava".
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È una favola affascinante quella che ha come protagonista il bambino Pietro, montanaro, che resta senza la mamma e cerca il padre emigrato in Germania di cui non sa più nulla. Una favola che va presa così come tale. Incontra figure quasi felliniane di un mondo troppo adulto per lui con le quali ha intense relazioni. Il bimbo protagoista è delizioso. La storia non ha ambizioni di realismo e se le avesse ce le scordiamo subito, la scenografia urbana girata in Romania è interessante e suggestiva ma forse un po' troppo da Germania anno zero; i costumi sembrano un arsenale di guardaroba e acconciature mescolate dagli anni '40 agli annoìi '70; la ragazza rumena, che i nostri eroi incontrano in Germania, non fa cenno al regime comunista da cui immagino dovrà essere fuggita, parla e si comporta come un'emigrata di oggi, senza tenere conto che allora, prima della caduta del Muro, dai paesi dell'Est non si emigrava, ma solo si "scappava". Noi occidentali se incontravamo un esule dei paesi comunisti facevamo una quantità di domande su quel mondo segreto e sconosciuto, e gli esuli facevano fatica a dare informazioni, diffidenti e timorosi, abituati al controllo poliziesco dei loro paesi, tutto questo incontro e attrazione tra mondi diversi che effettivamente avveniva allora in Germania è reso pochissimo. Anche l'attività illegale vera e propria dei magliari non è chiaro in cosa consista, oltre a quello che il bambino Pietro riesce a vedere, sembra proprio che il film voglia restare sotto l'orizzonte della percezione del bimbo, quello che conta realmente è quello che ruota attorno a lui.
Emotivamente il film funziona e fino alla fine tiene una giusta tensione emotiva tra i due, il bimbo e il pregiudicato che si è offerto di portarlo in Germania pur di riavere il passaporto, e che a modo suo gli si affeziona.
Il film è un po' ingenuo ma onesto come lavoro.
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