Tratto da un romanzo di uno scrittore di noir, Auguste Le Breton, specializzatosi in racconti sulla malavita del dopoguerra in Francia, suo il famoso Rififi, il film di Gilles Grangier è un Gangster movie girato con uno stile asciutto ed essenziale, puramente descrittivista, che non concede nulla allo spettatore e al suo bisogno di coinvolgimento emotivo, limitandosi a narrare le vicende umane dei protagonisti e le loro disavventure alla maniera degli scrittori naturalisti francesi dell’ottocento.
Assolutamente trascurata l’introspezione psicologica dei personaggi, caratterizzati in modo grossolano e, nel caso di quello interpretato da Lino Ventura, addirittura involontariamente caricaturale, che si muovono in modo meccanicistico, come marionette più che come uomini e donne in carne ed ossa.
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Tratto da un romanzo di uno scrittore di noir, Auguste Le Breton, specializzatosi in racconti sulla malavita del dopoguerra in Francia, suo il famoso Rififi, il film di Gilles Grangier è un Gangster movie girato con uno stile asciutto ed essenziale, puramente descrittivista, che non concede nulla allo spettatore e al suo bisogno di coinvolgimento emotivo, limitandosi a narrare le vicende umane dei protagonisti e le loro disavventure alla maniera degli scrittori naturalisti francesi dell’ottocento.
Assolutamente trascurata l’introspezione psicologica dei personaggi, caratterizzati in modo grossolano e, nel caso di quello interpretato da Lino Ventura, addirittura involontariamente caricaturale, che si muovono in modo meccanicistico, come marionette più che come uomini e donne in carne ed ossa. A soffrirne maggiormente il protagonista, un Jean Gabin senza spessore, ingabbiato in un ruolo che non gli offre la possibilità di mettere in luce tutte le sue straordinarie doti attoriali. Il suo viso è atteggiato perennemente in un ghigno strafottente. Il suo destino è segnato dalla appartenenza alla mala e dagli affetti familiari, la cura paterna per il fratello di molto più giovane e la devozione per la madre. Annie Girardot è la donna perduta, interessata soltanto al danaro e alle pellicce. Marcel Bozzuffi, l’innamorato ingenuo e maldestro delinquente, è il fratello dell’astuto e crudele criminale.
Il film, costruito come uno schematico teorema moraleggiante, si dirige velocemente al finale drammatico per dimostrare con tutta evidenza che il delitto non paga e che date certe condizioni sociali, ambientali e culturali la sorte dei personaggi è già deterministicamente stabilita sin dall’inizio, scritta nelle premesse. Quello di Le Breton è un mondo dove non c’è posto per il riscatto e per il libero arbitrio.
Nonostante sia difficile, in un epoca in cui nel cinema domina il neoromanticismo e lo psicologismo, apprezzare una pellicola di segno opposto come questa, Il dado è tratto ha ancora un suo fascino retrospettivo, in parte, forse, dovuto alle immagini in bianco e nero di una Parigi che non c’è più.
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