Uno dei film principali del filone dei cannibal-movie lanciato dallo stesso Lenzi nel 1972 con “Il paese del sesso selvaggio”.
L’idea di base della nascita di questo sotto genere (idea che concorre direttamente a far parte della trama del film) è un’Italia che si chiede se esistano ancora a tutt’oggi i cannibali.
Con questo pretesto, abbiamo il (solito) gruppo di ricercatori che, spinti da diversi motivi e necessità, si avventurano nella (solita) foresta amazzonica e troveranno (loro malgrado) le risposte che cercavano.
Perché ho detto “soliti”? Perché in fondo si tratta di uno degli ultimi esemplari del genere. Nonostante ciò è da considerarsi migliore di molti dei suoi predecessori.
Migliore, per esempio, rispetto a Cannibal Holocaust, poiché se nel film di Ruggero Deodato la violenza era fine a sé stessa e urtava la sensibilità anche di uno spettatore dallo stomaco forte, nel film di Lenzi lo splatter è (a suo modo) innocuo e funzionale ai canoni (e alla trama, praticamente assente invece in “Cannibal Holocaust”) del (sotto)genere stesso.
Migliore (per citarne un altro) rispetto a “Mangiati vivi!” sempre di Lenzi (1980), che riciclava in modo fin troppo esplicito la struttura de “Il paese del sesso selvaggio”, introducendo scene di stupro a casaccio, nonché il riutilizzo (inutile) delle scene di squartamenti animali usate dal regista nel suo film del 1972.
Non fraintendetemi, la trama in “Cannibal Ferox” è minimale, ma (almeno) c’è.
Lenzi ci mostra quello che non aveva potuto mostrare 9 anni prima: se nel “paese del sesso selvaggio” torture e squartamenti toccavano agli animali, nel film dell’81 vengono applicate agli scomodi visitatori: si veda in quest’ottica il parallelismo inerente alla scena dove viene aperto il cranio alla scimmietta nel primo film, che si ripete su di un essere umano nel film qui recensito.
Le varie efferatezze (da segnalarsi ottimi effetti speciali, piacevolmente retrò e artigianali) che (oltre a quella appena accennata) si susseguono e che (per evitare spoiler), non mi dilungo a descrivere, rientrano tra le scene cult di un filone che vede il questo film uno degli ultimi bagliori e che avrebbe tra l’altro avuto seguaci ed estimatori (Tarantino, manco a dirlo).
Non lasciatevi fuorviare dalle fittizie implicazioni psicologico-sociali che il sottotesto può portarvi a seguire: l’idea dell’inchiesta perseguita dalla protagonista (con tanto di falsa “confessione” finale), nonché il fatto che gli indigeni siano visti come vittime prima, e come carnefici (vendicativi) solo poi, sono solo (gustosi e necessari) espedienti per mettere in bella mostra un tripudio di sangue come da onesta tradizione splatter.
In ogni caso, solo per appassionati (e per stomaci forti).
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