Lettere da Iwo Jima |
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Un film di Clint Eastwood.
Con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Shido Nakamura, Tsuyoshi Ihara, Ryo Kase.
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Titolo originale Letters From Iwo Jima.
Drammatico,
durata 142 min.
- USA 2006.
- Warner Bros Italia
uscita venerdì 16 febbraio 2007.
MYMONETRO
Lettere da Iwo Jima ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
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Lezione di cinema del maestro Clint
di ciroFeedback: 0 |
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giovedì 15 marzo 2007 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
La battaglia di Iwo Jima è senza un dubbio un episodio che costituisce terreno fertile per il cinema di Clint: la ristrettezza degli spazi in cui svolge l’azione, le situazioni estreme vissute dai protagonisti e l’ineluttabilità del destino che incombe su tutto e tutti sono in effetti elementi che contribuiscono ad esaltare lo stile e la poetica del regista. Nel precedente Flags Of Our Fathers, film bello ma a tratti eccessivamente didascalico, la critica era rivolta al patriottismo costruito e sfruttato ad arte per meri fini economici e propagandistici; in Letters From Iwo Jima, invece, il patriottismo viene piuttosto inteso come una forma di esaltazione che annulla la sacralità della vita e giustifica il sacrificio estremo di fronte ad una sconfitta inevitabile. Quello che colpisce è però l’incredibile naturalezza con la quale Eastwood scava nella profondità più estrema dell’animo umano, descrivendo i conflitti interiori dei semplici soldati e del generale Kuribayashi (un immenso Ken Watanabe), istruito in Canada, amante dell’America, ma fedele in maniera incondizionata al proprio Paese a ai propri doveri di soldato. Anche gli splendidi flashback rispondono alla volontà di indagare sull’ambiguità dell’animo umano e sul perenne conflitto tra sentimenti reali e imposizioni di natura culturale. Se infatti sull’isola tutti sembrano all’apparenza piegarsi ad una logica auto-distruttrice, al grido di “banzai”, i flashback ci mostrano al contrario come quegli stessi uomini conservino sentimenti comuni all’intero genere umano che nessun ufficiale, per quanto esaltato, è in grado di annullare. Non c’è retorica, non c’è sentimentalismo ma solo sincera commozione; ma soprattutto il culto della morte e il disonore della sconfitta tipici della mentalità guerriera del Giappone non generano disprezzo o peggio ilarità, come capitato in altre occasioni, ma pena. Che poi a riuscire in questa impresa sia un americano e non un giapponese danno la misura della maturità stilistica raggiunta da Clint Eastwood, capace di incastonare, all’interno di una storia che scivola in maniera lenta, inesorabile e perfetta verso l’annunciato massacro finale, gemme che appartengono già alla storia del cinema: la sequenza dei soldati giapponesi che si fanno saltare in aria con le granate all’interno delle caverne del monte Suribachi nel momento in cui si rendono conto di essere stati sconfitti, e quella, straziante e magnifica, della lettura della lettera inviata dalla madre ad un soldato americano fatto prigioniero, ascoltata in silenzio dai giapponesi, da sole giustificano l’utilizzo della parola capolavoro. Ancora una volta il messaggio è che in guerra non ci sono eroi, ma solo uomini ridotti ad automi ossessionati dalla morte e per questo terrorizzati e capaci di macchiarsi dei peggiori crimini, come giustiziare un soldato ormai disarmato a sangue freddo. Ma pur sempre uomini, anzi ragazzi che hanno il solo desiderio di tornare dai propri cari, si trovino questi in una fattoria dell’Oklahoma o in un piccolo villaggio ai piedi del Monte Fuji. Un concetto questo che può anche essere completamente ribaltato: e cioè che tutti sono eroi per il semplice fatto di essere in guerra. Anche tale messaggio viene però veicolato con estrema naturalezza e sincerità, senza bisogno di ricorrere ad alcuna forzatura o eccesso retorico. “Il genio è l’uomo capace di dire cose cose profonde in modo semplice”, disse una volta Bukowski. E Clint Eastwood, probabilmente, lo è.
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