cerottoliquido (d.z.)
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domenica 11 gennaio 2009
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eros dolceacre, gli infiniti ossimori dell'amore
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Pero è uno scrittore ormai perduto che si mantiene pronunciando orazioni funebri ai funerali degli abitanti della sua terra, una regione sulle montagne slovene, vive con le due sorelle, il figlio d'una di queste ed il padre, che disperatamente e ripetutamente tenta il suicidio con metodi caserecci per raggiungere la moglie ormai morta da tempo.
Jan Cvitkovic ed il suo sceneggiatore riescono, partendo da questo ordito che già promette bene, a tessere una trama geniale, non a caso il film ha vinto il premio come miglior sceneggiatura al festival di Torino, che muove con precisione millimetrica le marionette che fungono da protagoniste all'interno del film. Ogni figura è ben delineata ed i profili psicologici dei personaggi, persino di quelli secondari, possono essere compresi e colti con facilità dallo spettatore, grazie ad un primo tempo dal ritmo forse troppo lento che però getta le basi per la comprensione d'un secondo tempo che riserva pagine di grande cinema.
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Pero è uno scrittore ormai perduto che si mantiene pronunciando orazioni funebri ai funerali degli abitanti della sua terra, una regione sulle montagne slovene, vive con le due sorelle, il figlio d'una di queste ed il padre, che disperatamente e ripetutamente tenta il suicidio con metodi caserecci per raggiungere la moglie ormai morta da tempo.
Jan Cvitkovic ed il suo sceneggiatore riescono, partendo da questo ordito che già promette bene, a tessere una trama geniale, non a caso il film ha vinto il premio come miglior sceneggiatura al festival di Torino, che muove con precisione millimetrica le marionette che fungono da protagoniste all'interno del film. Ogni figura è ben delineata ed i profili psicologici dei personaggi, persino di quelli secondari, possono essere compresi e colti con facilità dallo spettatore, grazie ad un primo tempo dal ritmo forse troppo lento che però getta le basi per la comprensione d'un secondo tempo che riserva pagine di grande cinema.
Ogni personaggio infatti nel secondo tempo trova un suo sviluppo, se nel primo tempo c'è stata la semina è durante il secondo che lo spettatore gode del raccolto, gli amori sbocciano, ciò che prima poteva essere solo intuito comincia a venire a galla ed il film cambia radicalmente ritmo.
Magistrale l'interpretazione di Sonja Savic, che interpreta Ida, la sorella sordomuta di Pero, interpretato da Gregor Bakovic, attorno alla cui figura ruota gran parte del secondo tempo.L'attrice offre infatti immagini emozionanti, intense e dimostra grande sensibilità nell' interpretazione.
Un film dalla sceneggiatura geniale, ricco di scelte registiche povere e minimaliste, una storia cruda al punto giusto, che scuote l'umore dello spettatore facendolo passare dal riso al pianto in una manciata di minuti, peccato soltanto per un primo tempo dal ritmo troppo lento e che lascia un po' di spazio alla noia per uno spettatore abituto al cinema occidentale. Consigliato per chi non vuole un film banale e per coloro i quali non rischiassero di addormentarsi durante il primo tempo perdendo così la meravigliosa seconda parte del film.
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gabrjack
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sabato 13 novembre 2010
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storie di vita e di morte
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Nella verde e amena campagna slovena a un tiro di schioppo dal confine italiano si celebrano funerali dove non c'è ombra di prete e nemmeno di preghiere a benedire il defunto.
Al suo posto c'è Pero, il protagonista del film. Ai bordi della fossa intreccia il suo elogio funebre per ricordare il caro estinto. E' bravo Pero, sa trattare la morte talmente bene da ricavarne perfino da vivere. La sua vita fuori dei cimiteri si srotola tra due sorelle di cui una sordomuta e l'altra infelicemente sposata e il padre che dopo la morte della moglie, ostinatamente cerca di farla finita, anche se (volutamente?) manca ogni volta l'appuntamento col destino per cause assolutamente esiziali. Il cielo è sempre blu in quella terra rigogliosa tra colline e il mare eppure il colore che si intuisce dietro a quell'apparente tranquillità è il nero della morte.
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Nella verde e amena campagna slovena a un tiro di schioppo dal confine italiano si celebrano funerali dove non c'è ombra di prete e nemmeno di preghiere a benedire il defunto.
Al suo posto c'è Pero, il protagonista del film. Ai bordi della fossa intreccia il suo elogio funebre per ricordare il caro estinto. E' bravo Pero, sa trattare la morte talmente bene da ricavarne perfino da vivere. La sua vita fuori dei cimiteri si srotola tra due sorelle di cui una sordomuta e l'altra infelicemente sposata e il padre che dopo la morte della moglie, ostinatamente cerca di farla finita, anche se (volutamente?) manca ogni volta l'appuntamento col destino per cause assolutamente esiziali. Il cielo è sempre blu in quella terra rigogliosa tra colline e il mare eppure il colore che si intuisce dietro a quell'apparente tranquillità è il nero della morte.
Non è un caso che la Slovenia sia uno dei paesi con il più alto tasso di suicidi. Stupisce, ma non più di tanto, la serenità con cui il vecchio cerca la sua fine, sembra (per lui) la cosa più naturale del mondo. E stupisce anche il lento sviluppo del film che matura per gradi senza fretta per prepararci ad una seconda parte dove gli avvenimenti prenderanno una piega assolutamente imprevedibile. Il tranquillo paese improvvisamente si scopre abitato da donne trasgressive, da bruti che arrivano a crocifiggere le loro vittime prima di stuprarle, da uomini miti che si trasformano in spietati vendicatori. Tutto sotto gli occhi di Pero il quale si ritrova a commemorare gli amici più cari vittime di quest'assurdo vortice di follia. Significativa la scena della festa dopo il funerale di un ragazzo morto dentro un fusto pieno d'acqua per provare la resistenza del suo orologio subacqueo. Gli invitati mangiano cantano e ballano quasi ad esorcizzare la morte appena celebrata. Il nero prende sempre più il sopravvento, ma un barlume di luce s'intravvede in fondo al tunnel. Il vecchio padre trova l'amore proprio in virtù della morte di un compagno di letto d'ospedale. La moglie diventata vedova si innamora di lui e nei suoi occhi torna la voglia di vivere. L'amore penetra anche nelle profondità più remote per ricordarci che è il solo rimedio alla morte.
Film dai contrasti violenti ci lascia alla fine una sua morale, senza però imporcela.
Ci lascia anche uno spaccato della società rurale slovena, aggrappata al mito dell'indipendenza recentemente conquistata ma anche già disillusa da un benessere più apparente che reale ma che in compenso ha seminato già i suoi più perniciosi difetti a partire dalla solitudine e dall'indebolimento dei valori.
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theophilus
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giovedì 28 novembre 2013
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un'esistenza fuori del mondo
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ODGROBADOGROBA
Non si poteva introdurre meglio la 17a edizione del Trieste Film Festival che con il secondo lungometraggio di Jan Cvitkovic. Non si tratta di una frase ad effetto, buttata lì con intenti encomiastici, ma dell’affermazione di una più viva consonanza del festival e, crediamo, della città di Trieste con le atmosfere, le suggestioni e la veemenza esasperata che sono proprie solo alla cinematografia prodotta dai popoli che concorrevano a formare la Jugoslavia. Sarà forse per la vicinanza territoriale – le riprese di Odgrobadogroba sono state fatte nella parte Slovena del Carso – o per quell’intensità di luce, si direbbe così specifica di quei luoghi, quando il sole all’imbrunire cade radente sui volti degli attori ad illuminare anche campi, declivi e colline.
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ODGROBADOGROBA
Non si poteva introdurre meglio la 17a edizione del Trieste Film Festival che con il secondo lungometraggio di Jan Cvitkovic. Non si tratta di una frase ad effetto, buttata lì con intenti encomiastici, ma dell’affermazione di una più viva consonanza del festival e, crediamo, della città di Trieste con le atmosfere, le suggestioni e la veemenza esasperata che sono proprie solo alla cinematografia prodotta dai popoli che concorrevano a formare la Jugoslavia. Sarà forse per la vicinanza territoriale – le riprese di Odgrobadogroba sono state fatte nella parte Slovena del Carso – o per quell’intensità di luce, si direbbe così specifica di quei luoghi, quando il sole all’imbrunire cade radente sui volti degli attori ad illuminare anche campi, declivi e colline. C’è qualcosa di acuto, lancinante che penetra negli occhi e provoca una combustione dell’anima. È forse questo tutto il male, o buona parte di esso, che esaspera da sempre quei popoli in modo così crudele. Non c’è posto per le parole, in quei momenti. Solo silenzi improvvisi, interrogativi, caustici.
Capita così che il film di Cvitkovic si apra con lo sguardo del protagonista su di noi a denunciare la condivisione di una condizione umana sospesa tra cielo e terra, che non c’è dato di afferrare, ma che possiamo solo subire. La cinepresa si allarga, poi, a circoscrivere le parole dell’uomo e ad abbracciare gli astanti che si trovano nelle sue immediate vicinanze. Ci troviamo, di conseguenza, in un piccolo cimitero dove un oratore aiuta congiunti ed amici a piangere l’ultimo defunto. Attraverso di lui, il regista – autore anche della sceneggiatura - facendosi schermo di un mestiere su cui sembra voler dispiegare un’ironia dolce/amara, ma sul quale in effetti non dà giudizi, esprimendo una pura testimonianza, uno sguardo sull’incomprensibile, dice cose semplici e profondamente umane del rapporto che abbiamo con la vita e con la morte. Quest’uomo, autore professionista di orazioni funebri, passa la sua vita Di tomba in tomba (questo il titolo del film in italiano) a tentare d’interpretare il dolore di coloro che furono vicini al morto. È una sorta di delega di cui viene investito da parenti che fanno in questo modo professione di pubblica afflizione. Finché, all’ultima morte, quella dell’amico meccanico che gli fa da autista e fedele compagno delle sue scorribande letterarie e non, non riesce a trovare più parole e volge lo sguardo al cielo, non con atteggiamento di fede, ma – ci è parso di capire – in cerca di una spiegazione che sa di non poter trovare. Non è una forma di ribellione, anche se quello sguardo attonito fatica a riposare nelle parole di Salinger che ci consola con la presenza di un Dio cosmico che dimora in tutti noi.
Nel film troviamo numerosi altri personaggi, tutti immersi in un fluido ambiguo, un liquido oscuro nel quale pochi si salvano e i più soccombono. La ragazza sordomuta – che sembra fare le veci del classico matto del paese – è un folletto, quasi un fuoco fatuo che appare all’improvviso nei posti più impensati. Sceglierà di morire sepolta viva all’interno dell’automobile insieme con l’unico uomo che l’ha amata e che ha vendicato nel sangue le torture che lei ha subito. È, questa, una scena in cui la dolcezza e la crudeltà si sposano in maniera perfetta, lasciando allo spettatore un ulteriore sguardo sulla tragica follia di quelle popolazioni.
Jan Cvitkovic è stato definito un regista per caso. Non mostra particolare interesse per il mondo del cinema e pare che non accetti paralleli con altri colleghi. Ciò detto, questo archeologo che si è trovato a scrivere sceneggiature e, poi, a fare corti e lungometraggi per una concatenazione di circostanze – a suo dire – fortuite e, soprattutto, per necessità economiche, si è inserito con grande forza nel mondo da cui prende le distanze. E non ci pare che questo sia avvenuto suo malgrado. Al suo secondo lungometraggio è stato capace di toccare corde e di evocare immagini di un’intensità tale da dimostrare di aver supplito alla mancanza di esperienza con una consonanza e una idoneità miracolose. La forza di quelle immagini – soprattutto la scena della morte condivisa - ci ha rammentato un altro luogo cinematografico, il protagonista di Bure Baruta (film del 1998 di Goran Paskaljevic) chesi lascia esplodere – si direbbe con raccapricciante indifferenza – togliendo la sicura ad una bomba, mentre tiene stretta a sé una donna. Ma, se in Paskaljevic la misantropia nichilista (per dirla col Morandini) non può scendere a patti o concedere sconti, lo smarrimento panico di Cvitkovic dà luogo ad un perenne contatto dialettico con l’al di là e quella morte non è blasfema, ma risuona della pietas e di sentimenti che hanno a che vedere con la gratitudine, l’amore, il legame di sangue.
Odgrobadogroba è attraversato anche da lampi di humour nero, certe forme di comicità difficilmente spiegabili se non come un modo per esorcizzare la tragedia della vita, con la quale, a buon conto, dialogano in maniera serrata. Il principale veicolo di questi momenti è il padre del protagonista, un uomo depresso che – dopo la morte della moglie – non solo non trova più motivazioni alla vita, ma neppure la forza di parlare e tenta continuamente la strada del suicidio, creando situazioni paradossalmente esilaranti. È uno di quei pochi che si salvano, grazie all’arrivo di un’altra donna. Mentre gli altri attorno a lui muoiono, lui riprende a vivere: una bella metafora dell’inspiegabilità e dell’inafferrabilità della speranza.
L’ultima parola è lasciata al protagonista, con due occhi che si allontanano insieme alla cinepresa in direzione del cielo, alla ricerca di una forma di rassegnazione.
Con Odgrobadogroba, la cinematografia dell’ex Jugoslavia si e ci arricchisce di una nuova testimonianza, un contributo che s’inserisce a buon diritto fra i più significativi nel flusso culturale, estetico ed esistenziale di quelle terre. Abbiamo tralasciato di proposito il termine politico in quest’ultima considerazione. Quella cinematografia ci sembra – di fatto – non incline a ricercare spiegazioni di natura sociale, ma volta, invece, a rappresentare il dramma di una condizione umana non identificata, non riconducibile a qualcosa che, volendola spiegare, rischi di appiattirla o falsarla. È un grido, un’esternazione sempre violenta; non la si può circoscrivere o soffocare, ma solo subire, come quella presenza divina, lontana e inafferrabile.
Il film, già premiato a Cottbus (Germania), San Sebastian e Torino, è stato l’evento speciale d’inaugurazione di Trieste Film Festival, sicuramente uno dei suoi momenti più elevati. Il regista, presente nell’edizione passata col cortometraggio Srce je kos mesa (Il cuore è un pezzo di carne), aveva vinto il Leone degli esordienti a Venezia. 58 con Kruh in Mleko (Pane e latte).
Enzo Vignoli,
20 gennaio 2006.
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