In questi casi m’immagino sempre il regista che se la sghignazza di fronte ai tentativi di interpretazione, anche surreali, a volte, della sua ennesima provocazione cinematografica, ma questa è un’altra storia.
Allora, cos’è Nimic? Personalmente mi ha (ri)evocato “Il compagno segreto” di Conrad. Il protagonista “Dillon no name” sembra infatti realizzare un classico viaggio allegorico e introspettivo. Arriva un momento in cui “il senza nome” sperimenta l’angoscia di sentirsi estraneo alla sua famiglia, al suo lavoro, a se stesso, alla sua vita nel complesso. Una sensazione questa che molti di noi provano soprattutto con l’avanzare dell’età. E allora, non resta che recuperare la saggezza indispensabile per continuare ad esercitare, comunque sia, e nonostante certi vissuti forse inevitabili, di alienazione, il, anzi “un” proprio ruolo per rimettersi alla guida dell’esistenza. Oltre i dubbi e le frustrazioni, dunque! Occorre essere pronti ad affrontare la “routine”, ma con una nuova comprensione, possibilmente.
La prima “proiezione” che il piccolo film mi ha suscitato riguarda l’ansia di essere letteralmente “screditati” agli occhi degli altri e di quelli più vicini a noi, soprattutto. Qualcuno direbbe il timore di non essere più riconosciuti nella nostra individualità. Insomma, il tema della perdita di identità si profila di nuovo all’orizzonte e mai argomento fu più attuale in questo momento storico.
Ma non è tanto il timore in sé di scomparire agli occhi del prossimo a preoccuparci, quanto il senso di angoscia che scaturisce da non vedere riconosciuti l’amore e l’impegno profusi in quello che facciamo, forse. Il guaio è che viviamo in un sistema dove – si può tranquillamente non pensare nulla, ma si è autorizzati a credere di sapere tutto -. La mia conoscenza vale quanto la tua ignoranza. Siamo tutti intercambiabili, quindi. Ed è per questo forse che molti di noi abbiamo la tendenza perversa a diventare facilmente sacrificabili e superflui, quindi. Abbiamo perso di originalità. Non si dà valore alla persona e al suo talento. E non importa di che colore sia la tua pelle. Si privilegia la mansione. E non c’è nulla che non si possa imparare con un minimo di “affiancamento”, pare. Niente che persino un’intelligenza artificiale con la sua rete neurale non possa riprodurre anche meglio di un umano e senza nemmeno bisogno di addestramento. E Michelangelo sarebbe stato tale, cioè avrebbe conservato la sua originalità se avesse dovuto mettersi in competizione con l’intelligenza “artistica”(IA) di una fotocopiatrice? Ecco servito nella sua massima espressione il vero apprendimento “vicario” quello di colui che è delegato, uomo o macchina che sia, a fare di te un mero accessorio, surrogato triste. E qual è il valore aggiunto che io rappresento, allora? Siamo tutti molto “eclettici”, alla fine. Eclettici e sempre più inutili.E allora finiamo per dare valore alla vita umana a patto che gli umani ci servano a qualcosa. Quando non sappiamo più che farcene di certa gente cominciamo a vagheggiare soluzioni finali o guerre di frontiera o lasciamo che la natura faccia il suo corso o deleghiamo i “tagliatori di teste” del “Mercato” a gestire i periodi di crisi licenziando il personale in eccesso.
In fondo, il protagonista arriva ad un certo punto della sua vita in cui fatalmente si chiede“Qual è il mio ruolo nel mondo?” Quale futuro mi aspetta? Qual è il senso della mia presenza qui? Per quanto tempo ancora potrò sopportare questa condizione di evanescenza? Siamo davvero così intercambiabili, dopotutto, così maledettamente convertibili ad esempio in amore? O sul lavoro? È vero che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Però è anche vero che finché siamo vivi siamo indispensabili. In linea di principio, almeno. Perché è questo il punto, forse. Che anche da vivi dobbiamo accettare il fatto di poter esser sostituibili. E' questo l'antidoto al narcisismo maligno sempre in agguato?
E come reagisce a questo vissuto di alienazione il protagonista?Sembra con la rassegnazione! Il protagonista scompare alla fine senza crucciarsi più di tanto di fronte all’evidenza della perdita del ruolo di amante, marito, padre. Insomma, non c’è alcun problema alla fine. Non c’è da protestare o da sprofondare nella depressione più nera. Il problema non è neppure più “Essere o non Essere”. Perché in questo contesto l’unica azione che ci è concessa è osservare l’azione stessa (la perdita della riconoscibilità) Non c’è da opporsi qui perché questo tipo di cambiamento è inevitabile e ti puoi limitare unicamente a descrivere ciò che accade. Che è di fatto ciò che fa il protagonista quando scompare in silenzio e pare che si prepari a sostituirsi ad un altro viaggiatore della metropolitana. Fare il “sostituto” di qualcun altro (subentrare al posto di un altro/a in amore, sul lavoro, in famiglia) diventa il nostro misero risarcimento per il danno emergente e il lucro cessante derivanti dalla perdita di individualità. E così come sei costretto nel corso della vita a cambiare lavoro, così devi abituarti ad essere sempre qualcosa di diverso per qualcun altro. E il ciclo continua. È un modo questo di subire consapevolmente questo mondo, che non patiamo necessariamente come un male; al massimo avvertiamo come un vago disagio con cui però conviviamo, abbastanza serenamente. Bisogna pur andare avanti, dopotutto!
Alcune inquadrature (l’orologio che scandisce i secondi e i minuti) potrebbero essere considerate un’esortazione a godere delle piccole cose, a riappropriarsi del tempo per vivere intensamente ogni minuto (i minuti sono i veri diamanti della nostra vita) anche quelli apparentemente più scontati come una colazione in famiglia o la preparazione di un uovo? "Do you have the time?": hai (possiedi) il tuo tempo o è il tempo che possiede te?
Sembrano masturbazioni intellettuali tipiche di certi borghesi capitalisti occidentali. Anche un po’ surreali se uno pensa che nel mondo ci sono persone senza un’identità, senza nemmeno una terra. Senza un lavoro, senza una casa, senza relazioni umane significative e che sarebbero felici di poter avere un tetto sotto il quale cuocere un banale uovo in santa pace e in compagnia magari di una famiglia.Tutte cose che per “noi” sono così “ordinarie”, ma che per qualcuno persino il minimo indispensabile diventa parte di un sogno impossibile. Qualcuno sta ancora cercando il suo cazzo di posto in questo mondo o anche soltanto una nicchia in cui accucciarsi. E mentre “Dillon no name”si rassegna a scomparire e a rinascere, forse, ogni volta sotto mentite spoglie qualcun altro è qui a mettere all’asta persino il suo diritto ad esistere.
E come il protagonista del cortometraggio “non possiamo farci un bel niente”. E ci limitiamo a riportarlo sperando che questa splendida consapevolezza ci sollevi almeno dal peso del solito inutile senso di colpa sempre incombente.
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