Probabilmente gli obiettivi di questo film erano molto ambiziosi. E anche le aspettative della vigilia lasciavano preconizzare per il suo protagonista, il SUV Monolith, un ruolo di primo piano nella hit delle movie-star a quattro ruote. Arrivando magari persino a conquistare un gradino alto sul podio a fianco della inquietante Plymouth Fury (Christine, la macchina infernale), scaturita dalla mente diabolica di Stephen King e portata sullo schermo nel 1983 da John Carpenter, o dell’altrettanto minacciosa autocisterna Peterbilt 281 (Duel) trasformata in una memorabile icona meccanica dell’horror da Spielberg nel lontano 1971.
Il soggetto del film (abbastanza originale nel panorama dei car-thriller) ripropone in una veste inedita il conflitto uomo/macchina, scansionato stavolta soprattutto dall’angolazione ipertecnologica. Materia decisamente accattivante e attualissima, considerata l’ampia profusione di dispositivi elettronici (dai sistemi di guida assistita a quella autonoma) divenuti ormai gadget indispensabili sulle auto di serie di qualsiasi segmento.
E l’idea del bambino intrappolato all’interno dell’auto si ricollega inoltre, seppur indirettamente (poiché in questo caso il pargolo non è stato dimenticato nel veicolo) ad alcuni tragici eventi di cronaca piuttosto recenti dove incauti genitori si sono scordati il figlio nell’auto chiusa sotto il sole di un’estate infuocata.
Ma a volte, anche avendo a disposizione tutti gli ingredienti giusti, il risultato finale può non essere all’altezza delle previsioni; soprattutto quando si lesina troppo nella preparazione, nella presentazione e nella promozione del prodotto.
Le spietate leggi del marketing impongono indubbiamente un colossale sforzo produttivo a chiunque voglia affacciarsi seriamente sul mercato del cinema internazionale e queste stesse leggi, se non sostenute da budget adeguati, possono rappresentare spesso il tallone di Achille dell’intero progetto, oltre a vanificare qualsiasi speranza nell’ascesa al box office.
Ed è proprio questo il limite di Monolith che si evidenzia, oltre che nella parsimonia di alcune sequenze (soprattutto quelle dinamiche del veicolo), sia nel numero (piuttosto esiguo) delle sale di uscita del film che nella quantità dei promo (pochini) mandati in onda sulle reti televisive più trendy.
Un film che, seppur con qualche pecca nella sceneggiatura e alcuni scivoloni nelle dinamiche del fumetto (come le scene finali dove il SUV scorrazza nella folle risalita off-road dal fondo del canyon), risulta nel suo insieme godibile e ben girato. Ma non credibile fino in fondo, palesando un’occasione mancata per un cinema italiano (anossico e in perenne crisi di astinenza creativa) che ha dissipato un’ottima chance per svincolarsi finalmente dall’orbita gravitazionale dell’universo dei cine-panettoni e dei comici (o presunti tali) all’amatriciana.
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antoniomontefalcone
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martedì 22 agosto 2017
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isolamento e alienazione, tra fumetto e cinema
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“Monolith” è un interessante esperimento trans-mediale italiano che realizza un thriller intimistico, artigianale e citazionista, sintonizzato con l’estetica del graphic novel. Il film ha un taglio semplice, essenziale ed evocativo, con immagini di natura simbolica. Un esercizio stilistico pregno di tensione, atto a mettere in scena un intrappolamento esistenziale. Attraverso il futuribile suv nero, impenetrabile e accessoriato, l’opera riflette i tormenti paralizzanti della protagonista e la sua sofferta maternità, ma anche la forza che può diventare al tempo stesso la debolezza delle conquiste tecnologiche a cui siamo sempre più legati e rapportati. La pellicola, malgrado i suoi difetti, nel complesso è efficace e godibile, e riesce a coinvolgere.
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