La storia, che mi sento di accostare a C’eravamo tanto amati, si svolge in tre diversi piani temporali che attraversano 3 fasi della tormentata storia balcanica del XX secolo: la seconda guerra mondiale (1941), la dittatura di Tito (1961) e la scissione dell’ex Jugoslavia (1992), infatti siamo in presenza di un triangolo amoroso: Natalija, un attrice costretta dagli occupanti nazisti a recitare in tedesco è contesa da due amici fraterni, eroi del racconto sono Marko e Petar detto “Il Nero”.
Dietro l’epopea dei nostri protagonisti, scandita dal suono di una torrenziale musica gitana, si cela allegoricamente la parvenza storica e di uno stato fatto di più popoli, lingue e religioni. Due facce dalla stessa medaglia sono quelle di Marko e il Nero, che finiranno per ribaltarsi lungo lo scorrere delle loro vite, con i loro pregi e difetti, astuzia e inganno, coraggio e onore, inquietudine e spirito libertino si fanno personificazione della loro patria, una terra a cui sono irrimediabilmente legati ma che non esiste più.
Chi si aspetta un film di guerra pieno di nauseante retorica patriottica, o l’ennesimo dramma piagnone è totalmente fuori strada. Il film di Kusturica in questo senso è più facilmente collocabile accanto al capolavoro di Ettore Scola e in misura minore all’Amarcord di Fellini, per la capacità di riuscire a raccontare un contesto storico, politico e culturale in uno sfondo crudo e desolante quale è quello della guerra, e di come questa si riversa sugli spiriti di ciascuno plasmandone l’esistenza.
Non ho visto film che meglio di questo abbia sappia porre su due piani così differenti la tragicità della guerra e la quotidiana serenità familiare, che nella scena del matrimonio nella seconda parte raggiunge la stessa idilliaca bellezza del cinema di Fellini. Si rimane colpiti dalle reazioni quasi disincantate dei protagonisti in preda ai bombardamenti, di come questi si ostinino a continuare a mangiare o ballare incurantemente, simboleggiando il distacco del mondo slavo da tutto il resto, che verrà a palesarsi nel meraviglioso, poetico e surreale finale.
Underground per il suo travalicare i canoni di ogni genere cinematografico, per il riuscire a far sorridere senza scadere nel ridicolo avvicendando la sequenze drammaturgiche a quelle comiche o romantiche è veramente fuori dagli schemi e la regia e la fotografia riescono ad imprimere all’opera un’atmosfera di favola amara e nostalgica, che ha il sapore del rimpianto. La presenza di alcuni personaggi bizzarri come la scimmia scampata al bombardamento dello zoo di Belgrado e il figlio del Nero, che sembra un minorato perché è vissuto sempre nel sottosuolo e non ha mai visto il mondo, danno un tocco di baldanza e surrealismo in più a tutto il film, senza contare la musica di Bregovic, la cui sonorità è nella sua ridondanza perfetta e ben utilizzata.
Il film è uno dei più belli degli anni ’90 e la Palma d’oro di Cannes, di cui Kusturica non è nuovo alla vincita, non tradisce chi ha qualche aspettativa nei confronti di ciò che sta per vedere.
Molto belle e ben fatte le immagini di repertorio coi protagonisti affiancati alle celebrità politiche dell’epoca e gli squarci del funerale di Tito in cui si vede anche Pertini a pieno schermo, piccole perle d'archivio in fase di montaggio.
Si esce dalle 2 ore e 40 di Underground un po’ frastornati, ma con la stessa soddisfazione post-sbornia in un locale dei bassifondi di Novi Sad.
Voto 9
Danko188
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