Orfani dell’attenzione di Shakespeare che li fa morire quasi distrattamente alla corte d’Inghilterra, R & G, in questa rivisitazione ironica e grottesca del dramma di Amleto,
sono strappati alla deriva di partecipazione e d’inerzia drammatica cui il testo li costringe e resi strumentalmente protagonisti, punto di vista attraverso il quale il regista
indaga e rilegge la struttura intima dell’opera del drammaturgo inglese, cercando di sostanziarne gli aspetti meno evidenti, le virtualità di senso più nascoste.
Operazione che il regista cerca di compiere sfruttando proprio questa fragilità, quest’assenza di polarità drammatica dei due ex amici d’università d’Amleto;
l’estraneità e la marginalità dei due personaggi gli consente, infatti, di accostarsi quasi surrettiziamente alle torbide vicende in svolgimento alla corte danese, dilatandone gli spazi, facendone paludi temporali da cui spiare brandelli di agito, nel tentativo di interrogare la vita e le sue pretese verità, confuse in un gioco perverso tra realtà e rappresentazione. Ma c’è una realtà o solo e unicamente una rappresentazione di essa?
R & G si aggirano nelle stanze del Castello di Elsinore nell’evidente incapacità di dare un senso alla propria posizione ( perché sono lì, perché si trovano in quella situazione)
ed a quella degli altri, di percepire gli eventi, di interrogarli, di interrogarli, latori
di un razionalismo caparbio ancorché insufficiente ad interpretare, in un universo
dove tutto ciò che si mostra è apparente.
Universo di rappresentazione quindi, denso di segnali contrastanti, dove il visibile è lontano
dal verosimile, e dove provocatoriamente, l'unico territorio praticabile è quello della finzione.
Ed è questo il crocevia fondamentale del film, laddove lasciate da parte le crisi esistenziali di Amleto, il regista pone l'accento sul significato profondo di finzione, di artificialità
sull'impossibilità di identificarla, di accertarne la sua stessa essenza, essendo la vita un’inscindibile sovrapposizione tra realtà e sua raffigurazione, fluire continuo d’enigmi, con cui ci si deve continuamente rapportare.
Queste le riflessioni attraverso cui Stoppard devia significativamente dal testo classico, situando conseguentemente il centro dell'azione non più sul giovane principe e le sue ambasce, ma sulla compagnia di attori venuti a corte per recitare le loro commedie.
Folletti turbolenti dell'ambiguità, guidati da un suadente e istrionico capocomico (uno splendido R.Dreyfuss), che fanno da naturale contrafforte al cocciuto determinismo di R & G, in un incontro / scontro che oltre a determinare il senso del film, ne contiene anche le sue sequenze più belle.
E bellissima è la scena della rappresentazione teatrale, in cui i comici mimano il dramma stesso che lì si sta effettivamente vivendo, prevedendone gli sviluppi e i violenti risultati, davanti ad un R & G sempre più straniati, incapaci di cogliere perfino la premonizione del loro tragico destino. Giocata in modo distaccato, con un mirabile equilibrio tra farsa e lirismo, registro comico e drammatico, che peraltro è la cifra stilistica che informa tutto il film, la sequenza propone con forza quello che è il tema centrale dell'opera: il rapporto realtà / finzione.
E lo propone rovesciandone il senso normalmente acquisito: non è più la finzione ad inscriversi nella realtà ed esserne un suo corredato, ma il contrario, poiché non c'è realtà che non si palesi attraverso un rapporto mimetico, non c'è verità che filtri al di fuori della finzione, qui trasgressivamente recuperata sia come massima densità significativa, sia come un mutamento prospettico fondamentale, che elidendo un concreto immediamente dato, stimola la ricerca, la costruzione di configurazioni originali, in sintesi, produzione di senso nuova.
Se tutto è nella parvenza, dunque tutto è rappresentazione, tutto, in ultima analisi, è teatro; fuori del suo linguaggio e del suo riverbero significativo, si è fuori della Storia, non la si può comprendere.
A consegnare R & G ad un tragico destino, non è Amleto, che li mette disinteressatamente in mano ai carnefici, ma quest’incomprensione, derivata da uno sguardo troppo proteso all'immediatamente visibile, poiché l'eccesso di visibilità, porta inevitabilmente verso l'invisibile
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