Nazarin

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Un film di Luis Buñuel. Con Francisco Rabal, Marga López, Rita Macedo, Jésus Fernandez, Ignacio Lopez Tarso.
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Drammatico, b/n durata 94 min. - Messico 1958. MYMONETRO Nazarin * * * 1/2 - valutazione media: 3,50 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Il surrealismo bunueliano in veste clericale. Valutazione 5 stelle su cinque

di Great Steven


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venerdì 4 gennaio 2019

NAZARIN (MEX, 1958) diretto da LUIS Buñuel. Interpretato da FRANCISCO RABAL, MARGA LòPEZ, RITA MACEDO, JESùS FERNàNDEZ, IGNACIO LòPEZ TARSO, OFELIA GUILMàIN, LUIS ACEVES CASTAñEDA, ROSENDA MONTEROS
Dal romanzo, edito per la prima volta nel 1895, di Benito Pérez Galdós. Intorno al 1900 Nazarin, giovane prete messicano, vive nel suo paese d’origine sotto la dittatura feudale dello spietato Porfirio Diaz ed esegue la sua missione con umiltà fra i poveri. È, a suo modo, qualcuno un po’ diverso dal consueto peone emarginato: un profeta e un idealista imperterrito che prova a realizzare in Terra l’utopia di uguaglianza e carità predicata da Gesù Cristo, malgrado la maggior parte dei suoi disinteressati ascoltatori lo additi come un disgraziato che campa di elemosine. Infatuate del suo carisma, si uniscono nella sua peregrinazione – e nella pratica della lezione evangelica che sfiora le corde dell’eroismo – due donne: la prostituta Andara e Beatriz, una donna "schiava d’amore". Tuttavia il resto della gente che li circonda, in particolar modo il potere civile e quello ecclesiastico, non comprende Nazarin, condanna il suo lavorio pacifico e lo processa in tribunale, finché il sacerdote non si ritrova incarcerato. Dopo umiliazioni, disfatte e altre disavventure che si concludono in catastrofi, il patibolo è oramai inevitabile. Appare fin dalle prime immagini chiarissimo il tema centrale del film: inserire Don Chisciotte in una parafrasi della passione di Cristo. Secondo Buñuel, per quanto applicato con energia e dedizione, il cristianesimo non può essere un palliativo ai mali del mondo. Mettendo in secondo piano ogni ideologia che lo anima, si fa strada superbamente per la sincerità e l’impeto che lo contraddistinguono, lo stile ben calibrato, il disegno molto preciso dei personaggi e la limpidezza espositiva. Ma c’è anche una chiave di lettura umanistica e, in fin dei conti, pure psicanalitica della vicenda del protagonista: Nazarin, cui giovano meravigliosamente il fisico emaciato e l’espressione marmorea e al tempo stesso indagatrice di F. Rabal, non si pavoneggia come un distributore gratuito di miracoli né accetta dai bisognosi che essi lo riveriscano oltre i suoi meriti terreni, tant’è che la bambina guarita dalla malattia con le preghiere (Nazarin sostiene di non poter operare laddove perfino la scienza ha fallito) e gli appestati rinsaviti non sono da lui considerati alla stregua di benefici ottenuti grazie alla sola, cieca forza della devozione. Impossibile non sottolineare la complementarità delle due figure femminili che decidono di divenire sue discepole reputandolo un sant’uomo: Andara è fisicamente poco attraente, ignorante, becera, superstiziosa e avventata; Beatriz patisce per il gagliardo peone che l’ha abbandonata, ha scrupoli morali e attacchi di panico quando sente cadere una vergogna intollerabile su di sé. In comune hanno poco o niente, ma entrambe sperano nell’operato di Nazarin, confidano nella sua filantropia e, consce delle proprie manchevolezze in ambito religioso, si rimettono, vogliose di imparare, ai suoi parchi insegnamenti. Il piccolo paese a manovalanza agraria in cui i tre vivono prima di scappare dopo l’omicidio di Andara, la protezione offertole da Nazarin per non farla scovare dalla polizia e l’involontario coinvolgimento di Beatriz, rappresenta un luogo maniacale di egoismo dove ognuno pensa agli affari propri e vige un assoluto disinteresse per il prossimo, tutto in antitesi coi principi che Nazarin profonde, quasi con consapevole ma indulgente ingenuità, e invece sulla stessa lunghezza d’onda di una miseria che imperversa sovrana, colpisce chiunque senza distinzioni di sesso o età e trasforma l’estrazione sociale in uno status symbol da rimproverare, sebbene sia l’unico riparo che questi popolani sfavoriti dalla sorte possiedano per non compiangersi. Nella seconda metà del film, la gerarchia bellicista fa la sua prepotente comparsa, ed emergono afflati tonanti di un discorso classista che vede, nel Messico prerivoluzionario, i presunti dissidenti come una forza che si oppone al potere costituito, naturalmente sopravvalutata, minacciando di sovvertire una già consolidata compostezza con qualche ribellione architettata da pazzi compulsivi. Non per niente le forze dell’ordine, a un dato momento, vengono a conoscenza del collaborazionismo di Nazarin nei riguardi di Andara e li arrestano ambedue, e dietro le sbarre il parroco subisce vessazioni corporee e umiliazioni verbali da parte della caciara grottesca di prigionieri molto più colpevoli e vigliacchi di lui, insieme alle accuse di donnaiolo degno di calunnia. La frase che egli pronuncia asserendo che, per la prima volta in vita sua, gli risulta complesso separare il disprezzo dal perdono suscita un’emozione toccante che pigia sulle corde della fede cristiana a discapito di una vendetta semplice, immediata e consolatrice. Bianconero di Gabriel Figueroa, per i canoni abituali del regista insolitamente moderato. Premio speciale della giuria a Cannes 1959. Nel percorso di Buñuel è un’opera importantissima, caratterizzata da un pessimismo radicale che si nutre di una perpetua tensione fra volontà e casualità, dove la seconda, alla fine del confronto, prevarica sempre la prima.    

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