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Wilder è sempre Wilder: elegante ma non paludato, ironico ma non beffardo, venato di malinconia ma mai struggente o piattamente triste. Anche in questo film, dove il plot (uno dei “casi” di Holmes) potrebbe rendere più complicata l’applicazione di tali splendide doti, Wilder conferma di essere un grande. Con una sceneggiatura originale non tratta dalle opere di Doyle (ma talmente convincente che ne è stato tratto un libro a firma congiunta di Michael e Mollie Hardwick), ci propone non solo una raffinata, deliziosa, dolcemente ironica e soprattutto più umana figura del celebre detective (un Holmes consapevole della propria mediocrità musicale, consapevole e amaramente costretto, per fronteggiare lo spleen, a far uso di cocaina – abilmente stemperata da Watson in soluzione al 5%! –consapevole, ma mai totalmente rivelatore nelle cause, del suo difficile, se non impossibile, rapporto con le donne, consapevole del tempo che passa e che lo porterà inevitabilmente alla fine) ma anche una nuova lettura del fido Watson (meno stupido di quanto normalmente ci venga presentato e, pur se non ovviamente autoironico quanto il protagonista, capace di vivacità, di guizzi - con quel garofano rosso sull’orecchio mentre balla un indiavolato french can can paradossalmente reinterpretato dalla musica di Tchaikowsy - , e dotato anche di una certa intraprendenza, in netto contrasto con il rigido ruolo di esecutore dei suoi precedenti omologhi). E che dire della padrona di casa, che nello svegliare il povero Watson “incriccato” sul canapé, pensa solo al porridge che si raffredda (quelle horreur!)? Insomma, mi sento di confermare: Wilder non si smentisce mai.
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