Bastano in fondo pochi ingredienti per un buon film: un personaggio empatico, una struttura che pur non originale sia sufficiente a catturare l’attenzione dello spettatore e un paesaggio che possa riflettere in qualche modo, visivamente, i moti d’animo del protagonista. Se poi, alla base di tale pellicola, esiste uno dei fenomeni letterari americani più di successo degli ultimi anni, il best seller di Delia Owens, Where the crawdads sing,allora vi sono buone probabilità che la torta-film venga sfornata con successo.
Daisy Edgar-Jones, volto principe di Normal People e Olivia Newman in regia dovrebbero rassicurare. Eppure, no, qualcosa si inceppa.
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Bastano in fondo pochi ingredienti per un buon film: un personaggio empatico, una struttura che pur non originale sia sufficiente a catturare l’attenzione dello spettatore e un paesaggio che possa riflettere in qualche modo, visivamente, i moti d’animo del protagonista. Se poi, alla base di tale pellicola, esiste uno dei fenomeni letterari americani più di successo degli ultimi anni, il best seller di Delia Owens, Where the crawdads sing,allora vi sono buone probabilità che la torta-film venga sfornata con successo.
Daisy Edgar-Jones, volto principe di Normal People e Olivia Newman in regia dovrebbero rassicurare. Eppure, no, qualcosa si inceppa. Ne La ragazza della palude, nelle sale dal 13 ottobre, viene delineata una vicenda di umana solitudine ma anche di forte amore. Siamo ai limiti dei “soliti” film che procedono con flashback allor quando nella Carolina del Nord nel 1969, il cadavere di un ragazzo, Chase, popolare rampollo di una famiglia bene di Barkley Cove viene trovato esanime tra le mangrovie della palude. Viene accusata dell’omicidio Danielle Catherine- Kya Clark, “la ragazza della palude”, che con lui aveva vissuto una relazione complicata. Una ragazza Kya, come ci viene spiegato, cresciuta sola, tra i meandri di quella distesa ai margini del mondo, abbandonata dai membri della sua famiglia con tanto di padre violento, madre passiva e fratello arruolato.
Nel dipanar la vicenda Kya Clark, la cineasta Newman, indugia (e molto) con giochi malikiani sullo straordinario paesaggio scenico, quello figlio di un mondo ai confini del tempo, inanellandolo al carico emozionale (ma non storico) di una protagonista che si fa in quattro per rendere il trauma dell’abbandono, della violenza e del dolore pregnanti. Ma il mondo dei boschi non è così idilliaco e il drammone sentimentale con un riuscito seppur rapido finale (come a dire, chi se ne importa chi ha ucciso quel giovane…), diviene secondario rispetto alle pagine da romanzo di formazione di Kya nei confronti di una natura tutt’altro che matrigna leopardianamente parlando.
No, la madre di tutte le bestie è quella figlia della speranza, della rinascita, della flora e fauna, dell’etologia vagheggiata. E fin qui tutto bene, ma poi? Ciò che resta al termine della visione è la sensazione di aver trascorso due ore immersi in un mondo piacente e compiaciuto, umanamente retorico ma mai decisivo e soprattutto incisivo. Tuttavia, gli ambienti e la fotografia reggono quella che inizialmente poteva essere una storia convenzionale di abusi e solitudine alla volta di una riflessione, in fondo, sulla natura, quella umana, assai più imprevedibile.
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