Un film sulla discriminazione razziale? Potrebbe sembrare ma è più un film sulla verità: non quella che molti non riescono a dire, ma quella che molti non vogliono sentire e accettare.
I movimenti iniziali del protagonista, che portano poi al dispiegarsi di tutta la storia, ci fanno un pò pensare ad ognuno di noi, nei gesti impacciati e maldestri che ci portano a buttare giù un vaso o far cadere una candela. Quel gesto che può sembrare poco abile ma involontario, in questo caso, attraversa un muro e cambia per sempre le vite di chi transita dall'altra parte e, invitabilmente, anche la vita di chi ha innescato quel cambiamento.
Fin da subito si percepisce una visione, della famiglia e dei soggetti che gravitano intorno, che viaggia su binari vicini ma paralleli, che non si incontrato, una percezione di priorità, se pur simili, manifestate e alimentate in modi diversi e non sempre puntuali ed efficaci.
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Un film sulla discriminazione razziale? Potrebbe sembrare ma è più un film sulla verità: non quella che molti non riescono a dire, ma quella che molti non vogliono sentire e accettare.
I movimenti iniziali del protagonista, che portano poi al dispiegarsi di tutta la storia, ci fanno un pò pensare ad ognuno di noi, nei gesti impacciati e maldestri che ci portano a buttare giù un vaso o far cadere una candela. Quel gesto che può sembrare poco abile ma involontario, in questo caso, attraversa un muro e cambia per sempre le vite di chi transita dall'altra parte e, invitabilmente, anche la vita di chi ha innescato quel cambiamento.
Fin da subito si percepisce una visione, della famiglia e dei soggetti che gravitano intorno, che viaggia su binari vicini ma paralleli, che non si incontrato, una percezione di priorità, se pur simili, manifestate e alimentate in modi diversi e non sempre puntuali ed efficaci.
La madre che soffoca la realtà e manifesta vicinanza al figlio porgendogli cibo e insegnandogli le tecniche migliori per trattarlo. Il padre che non ha il coraggio, o la voglia, di affrontare nessun argomento che si prospetti come un problema e che mette pace senza emanare troppi suoni.. "EAT". La sorella che ha un pò della madre e un pò del padre. Sembra quasi che la tavola non possa ospitare allo stesso tempo il piacere dei gusti e le disfatte di un componente della famiglia. In quel momento non ci può essere sconfitta: arrivi quasi a pensare che sarebbe una bella magia mettere i piedi sotto quel tavolo e far sparire gli incidenti di percorso. A volte, per il significato assunto nel film, non vedi l'ora di metterti a tavola per assaporare quel silenzio che non è pace ma ti da spazio per prendere il respiro e guadagnare tempo e una porzione in più di cibo.
In tutto questo il tavolo diventa simbolo di unione, disunione, condivisione ma anche centro di culture diverse e modi di pensare e di risolvere i problemi in modo opposto. A quello stesso tavolo possono convivere conservatori che vedono l'uguaglianza in un fattore estetico legato alla fisionomia e, allo stesso tempo, 'suoceri neri' (definiti così dal vero mandante di una corsa verso il nulla) che hanno definito la loro posizione nel mondo ma che, forse, non hanno realmente lottato fino in fondo.
In questo scenario si inserisce il protagonista, non appartenente a nessuna di queste categorie, troppo riduttive per una figura che inizia a capire realmente il suo pensiero sulla comunità nel momento in cui non lo può più esprimere: "vorrei che sapessero cos'è successo..com'è successo". Secondo lui, la vera forma di razzismo, sta nelle modalità, nel comportamento scelto e non, come nel suo caso, nella non scelta, nell'involontarietà.
Mentre cerca i modi per far passare il giusto messaggio, si fa carico di uno stress personale che la sua coscienza non gli risparmia e di uno collettivo, quello della famiglia che vive un passo indietro rispetto agli eventi accaduti: sono rimasti al figlio viziato, maldestro e immaturo che non sa fare nemmeno il bucato, quando invece la vita è andata avanti, le cose si sono fatte serie e quelle caratteristiche non bastano nemmeno più per mettere in guardia una ragazza e non servono sicuramente a giustificare quanto accaduto. Questo loro rimanere indietro è rintracciabile nella volontà di non accettare la realtà e fanno questo ripensando a quello che si poteva evitare in passato ma sappiamo che il passato non può giustificare in toto il presente e sicuramente non può assolverci. "Ti avevo detto di non fare il poliziotto". Con questa frase è evidente che i protagonisti non stanno vivendo tutti la stessa storia ma vivono quello che hanno deciso di percepire e quello su cui hanno deciso di focalizzare la loro attenzione.
Sembra quindi di vivere più storie nello stesso film: un thriller psicologico e morale quando incontriamo il figlio e un dramma familiare quando, a tavola, ci riuniamo con tutto il resto della famiglia. Lui è preoccupato per come comunicare le vicende alla famiglia, come andrà il processo dove si dichiarerà 'not guilty', mentre la madre pensa che sia pallido in video e insiste nell'offrire cibo a coloro che sono venuti a trovare il figlio.
Questo rapporto madre/figlio viene avidenziato anche dalla figura della psicologa che rileva, nella mancanza di scelte equilibrate e sagge (seppur la situazione sia tragica), il risultato di un piano familiare dove il figlio sembra non aver preso realmente le distanze da quei ragionamenti e comportamenti genitoriali e che, tramandati dalle generazioni passate, hanno, in qualche modo, coinvolto anche lui. Per questo, la vera lotta non diventa più chiarire la sua posizione rispetto all'azione compiuta, ma cambia la prospettiva e si sposta tutto in famiglia: manifesta la sua volontà di dimostrare che non ha lasciato cose dietro non fatte, come sostiene ripetutamente la madre e la sorella puntuale su di lui, e questa sua ossessione lo porta in confusione tanto che abbandona sia il piano legato alla multicultura che quello familiare per fare una scelta sbagliata dopo l'altra: si affida ad un avvocato spietato, acquista una pistola e fa postare una foto con la fidanzata afroamericana in segno di 'NO RACISM'.
In tutto questo ricerca l'appoggio sbagliato e rinnega quello che lo aiutrebbe (quello della fdanzata) ad uscire da tutto, rientrando in sè e pagandone le conseguenze. Si affida, infatti, alla consolazione dei "falsi amici", "falsi confortatori" che ti cullano con pensieri che non hanno radici nella realtà e che non portano a prendere atto e consapevolezza dei tuoi veri motivi e che, per questo, la coscienza di chi relamente dimostra di averla, non perdona.
Allora vincere il processo non significa solo dimostrare di non essere razzista perchè forse questo non è stato il problema fin dall'inizio: vincere significa portare in alto la verità, quella sui suoi pensieri in famiglia che ha sempre rinunciato a esprimere (stride infatti la sua figura che noi percepiamo in un modo e la famiglia in un altro), su quello che è successo, su chi, forse, doveva essere al posto suo in quanto reale detentore di un pensiero razzista. Ma vincere non porta sempre vittorie e, a volte, neppure basta.
Per questo, da un gesto involontario prendono il via altre decisioni volontarie ma pur sempre sbagliate. E così si ritrova a chiedere scusa a una porta che non risponde, a quel buco sul muro. Quel buco che gli ricorda che quel colpo ha fermato delle ombre dietro la porta mentre ora che parla, quelle stesse ombre sono in movimento, gli camminano davanti senza rispondere mentre lui invece è fermo e la sua vita con lui.
Allora il finale può metterci d'accordo o allontanarci, può risolvere in modo facile o complicare ancora di più le cose e allargare la macchia del dolore, ma porta con sè un carico che ci dobbiamo prendere. Forse il razzismo è solo l'incipit che in realtà vuole portarci verso altre strade, quelle che ci ricordano che non si può aspettare di essere a un bivio per decidere, per far capire la posizione assunta, per farsi riconoscere dalle idee che si vivono ogni giorno e che è necessario fare questo proprio con chi, come la madre, pensa di conoscerti meglio di te. Il protagonista ha fatto tante cose ma non ha fatto nulla. Ha mosso le sue pedine senza muoversi mai realmente. Ha solo girato intorno alla questione e quel poco muoversi, l'ha portato anche a sbagliare.
Questa fine forse a qualcosa è servita, non più a lui, ma sicuramente a chi rimane. Agire è un'azione obbligatoria, necessaria ma, molte volte, è un'azione che porta frutto se fatta in comunione, in condivisione, anche rischiando ma facendolo prima. Così, forse, si vince la causa della verità. Non sempre, ma almeno non si è scomparsi senza lasciare dubbio sulle proprie idee, sui propri conflitti ma anche sulle cose certe.
Per chi rimane è difficile capire senza poter più chiedere. Ma, forse, si raggiunge, grazie al sacrificio ancora una volta involontario di uno, la vera consapevolezza di tanti: non bisogna aspettare il dolore per allearsi, (al supermercato lo sguardo della madri si ferma e si assomiglia finalmente) si deve scegliere da che parte stare ancor prima di passarci e che, purtroppo, non si aggiusta tutto con un buon thé.
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