La samaritana |
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Un film di Kim Ki-Duk.
Con Uhl Lee, Ji-min Kwak, Min-jung Seo, Kwon Hyun-Min, Oh Young.
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Titolo originale Samaria.
Drammatico,
durata 95 min.
- Corea del sud 2004.
uscita venerdì 17 giugno 2005.
MYMONETRO
La samaritana
valutazione media:
3,37
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Doppiodi enocFeedback: 0 |
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domenica 26 giugno 2005 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Essenziale, decisivo, cruciale: ecco gli aggettivi che spettano di diritto al decimo lungometraggio di Kim Ki-duk. Non tanto per raffinatezza estetica o intrinseci meriti artistici, ché – è bene dirlo subito – LA SAMARITANA non è una pellicola straordinaria, non brilla, per così dire, di bellezza propria. Ma per i motivi opposti: perché nelle sue imperfezioni, nelle sue sfilacciature, nelle sue paurose escursioni stilistiche, il film mostra con chiarezza inequivocabile la natura “doppia” del cinema di Kim Ki-duk. In SAMARIA si legge perfettamente l’urto tra due registri filmici antitetici, la collisione di due estetiche opposte, lo scontro di due modi incompatibili di fare cinema. Da una parte un cinema schermato, pudico, fatto di intuizioni visive scardinanti; dall’altra un cinema didascalico, convenzionale, perfino ammiccante. Fino a THE COAST GUARD (2002) il cineasta coreano ha dato voce, violentemente, al nucleo visionario della sua poetica, facendolo deflagrare nel rabbioso lirismo di CROCODILE (1996), nella dolcezza lacerata de L’ISOLA (2000) e nella struggente mutezza di BAD GUY (2001). Ma da PRIMAVERA, ESTATE, AUTUNNO, INVERNO... E ANCORA PRIMAVERA (2003) il cinema di Kim Ki-duk è visibilmente slittato verso il polo narrativo e didascalico, pur ammantato – come nel sopravvalutatissimo FERRO 3 (2004) – di un alone poetico. E se in PRIMAVERA... la deriva narrativa, compressa dall’impaginazione rigorosa e sussunta dall’andamento pedagogico, è appena percepibile, in SAMARIA esce finalmente allo scoperto, lasciandosi osservare in tutta la sua aggressiva evidenza. SAMARIA, insomma, è un film in conflitto con se stesso, spaccato in due, in tre, in mille pezzi. Il conflitto è leggibile a molti livelli. Anzi, a tutti. L’impossibilità dell’amicizia/amore tra Jae-yeong e Yeo-Jin, la divisione in tre capitoli (Vasumitra, Samaria e Sonata, quest’ultimo dal nome di una delle automobili più vendute in Corea), l’eterogeneità degli spunti religiosi (la prostituta indiana, il crocifisso marcio ma fiorito, Madre Teresa di Calcutta). Ancora: l’esitazione di Yeo-Jin sul da farsi (bruciare il denaro guadagnato dall’amica o restituirlo ai clienti?), l’incapacità del padre di parlare apertamente alla figlia, l’antagonismo tra il percorso di perdono e di punizione messo paradossalmente in atto dai due. Ma soprattutto il conflitto stilistico: sequenze divise tra una macchina a mano frenetica e traballante e inquadrature rigorosamente statiche, impassibili. Primi piani banalotti contraddetti da totali o campi lunghi di gloriosa, ieratica bellezza. Dialoghi girati in campo/controcampo versione ultrastandard e folgoranti esplorazioni dello spazio in cui lo sguardo, svincolato dall’obbligo di raccontare, perlustra il profilmico a caccia di pure suggestioni plastiche. E, infine, il solito contrasto tra la rappresentazione iperrealistica della violenza e l’esclusione dal quadro del trauma finale. Un fuori campo fratturante. Purezza e corruzione, santità e voluttà, perdono e espiazione: il dramma del sacro è lì, impresso sulla pellicola. Il solo, autentico peccato è che del Kim Ki-duk visionario rimanga ben poco. Senz’altro lo straziante finale.
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