andrea alesci
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martedì 3 marzo 2015
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la sonata dell’amore che salva
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Tre volte lo schermo si fa nero e vi biancheggiano altrettante parole bianche: Vasumitra, Samaria, Sonata. Vasumitra, il nome che la giovane Jae-yeong (Seo Min-jung) s’impone da quando comincia a prostituirsi e che ricorda quello di un grande maestro buddista. Samaria, non solo regione storica della Palestina ma vero e proprio spazio d’azione di Yeo-jin (Kwak Ji-min). Sonata, compendio finale in cui il filo narrativo è tessuto dal padre di Yeo-jin (Lee Uhl), agente della polizia locale.
Tre parole precise a costruire l’opera (Orso d’argento 2004), che come in una sonata del XVI secolo ha una sua esposizione (Vasumitra), uno sviluppo tematico (Samaria), una ripresa (Sonata).
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Tre volte lo schermo si fa nero e vi biancheggiano altrettante parole bianche: Vasumitra, Samaria, Sonata. Vasumitra, il nome che la giovane Jae-yeong (Seo Min-jung) s’impone da quando comincia a prostituirsi e che ricorda quello di un grande maestro buddista. Samaria, non solo regione storica della Palestina ma vero e proprio spazio d’azione di Yeo-jin (Kwak Ji-min). Sonata, compendio finale in cui il filo narrativo è tessuto dal padre di Yeo-jin (Lee Uhl), agente della polizia locale.
Tre parole precise a costruire l’opera (Orso d’argento 2004), che come in una sonata del XVI secolo ha una sua esposizione (Vasumitra), uno sviluppo tematico (Samaria), una ripresa (Sonata).
Il cineasta sudcoreano Kim Ki-duk gira con discrezione ma in maniera netta. La musica sfrutta appieno l’armonia pacificatrice del pianoforte, balsamo per le battute di dialogo spesso usate a tinte forti. Tutto è talmente ben orchestrato che la brutalità, sotterranea alla storia, invece di emergere in tutta la sua parossistica disperazione, rimane presente come luce soffusa per mostrarsi in qualche acceso bagliore. E se anche le manifestazioni di violenza cui assistiamo grondano sangue, è un sanguinare che emerge solo in un secondo momento, attutito da una specie di prima visione “a occhi chiusi”.
Tutto fa perno sul silenzio, che Kim Ki-duk sa sviluppare in un modo vellutato: mostrare nascondendo. Come accade per il suicidio della giovane Vasumitra e per la morte di uno dei “clienti/peccatori”, brutalmente gettato giù da un balcone dal padre di Yeo-jin.
La 13enne Jae-yeong/Vasumitra (nome di una prostituta indiana che convertiva al buddismo i propri clienti) fa sesso, ma per lei è quasi un gioco (“Il tempo non conta, per me è divertente quello che faccio”).
Le due ragazze sono avvinte da un’intima amicizia, che il regista accenna voyeuristicamente nelle scene di dolce complicità nei bagni pubblici, con Yeo-jin che lava amorevolmente la compagna, quasi a smacchiarla dello sporco fardello indossato ogni volta.
E al gioco amoroso delle due ragazzine si accosta come una costante la dimensione religiosa. Tutto il film è percorso da simboli sacrali: dipinti e immaginette di Gesù, le parabole raccontate dal padre alla figlia, la tomba della madre (visitata solo alla fine ma sempre presente con la sua assenza), crocifissi (come emblema di gioco e redenzione).
La dimensione sacrale diviene salvifica quando Yeo-jin, visto per l’ultima volta il viso sorridente (anche da morta) di Jae-jeong, decide di redimerla e di redimersi: si trasforma in Jae-jeong e si prostituisce presso gli stessi clienti che erano stati con l’amica, restituendo gli sporchi soldi ai legittimi “proprietari/peccatori”e declinando una misericordia che richiama naturalmente la parabola del buon Samaritano.
Infine, il percorso della sonata approda al suo momento finale, si completa. Il padre di Yeo-jin si accolla il peso del peccato (l'omicidio compiuto), mentre alla figlia viene restituito (con il “gioco” della guida dell’auto) quella dimensione di divertimento che appartiene alla sua giovane età. Yeo-jin guida l’auto barcollando, insegue la jeep bianca con a bordo il padre, lo rincorre per gioco sulla strada della redenzione, ma si impantana nel fango. L’automobile ruggisce, fumo bianco dal tubo di scappamento e zoom out a dissolvere ogni legame umano, a chiudere un film intenso che interseca l’amore-divertimento di Jae-jeong, l’amore misericordioso di Yeo-jin, l’amore redentore del padre.
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soter25
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giovedì 22 ottobre 2015
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"undici minuti"
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Il sesso è un luogo caritatevole in cui la samaritana tasta, scambia, la solitudine dell’ uomo con l’uomo, e attraverso cui può restituire i guadagni dell’ amica defunta, quando si prostituiva, ai suoi clienti. La vera perdita è quest’ amica per l’ appunto, e il sogno d’ un viaggio che avrebbero fatto assieme per l’ Europa. I proventi non hanno più valore, adesso. Cosa resta di tutto questo? Niente. O meglio, la compassione. Tanti uomini con cui quella “era stata”, regalando la freschezza del suo corpo adolescente e quel sorriso buono e ingenuo; uomini insicuri, non bestie, ma beneficiari dai vissuti complessi e le poche parole spendibili nel rigore delle vite quotidiane, dall’ onore pronto, dietro la scappatella, a pagare fin le estreme conseguenze dell’ “hara-kiri”.
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Il sesso è un luogo caritatevole in cui la samaritana tasta, scambia, la solitudine dell’ uomo con l’uomo, e attraverso cui può restituire i guadagni dell’ amica defunta, quando si prostituiva, ai suoi clienti. La vera perdita è quest’ amica per l’ appunto, e il sogno d’ un viaggio che avrebbero fatto assieme per l’ Europa. I proventi non hanno più valore, adesso. Cosa resta di tutto questo? Niente. O meglio, la compassione. Tanti uomini con cui quella “era stata”, regalando la freschezza del suo corpo adolescente e quel sorriso buono e ingenuo; uomini insicuri, non bestie, ma beneficiari dai vissuti complessi e le poche parole spendibili nel rigore delle vite quotidiane, dall’ onore pronto, dietro la scappatella, a pagare fin le estreme conseguenze dell’ “hara-kiri”.
La samaritana cerca l’ amica nei rapporti con questi uomini, indentificandosi con quell’ atteggiamento tipico di lei per essere lei, ovvero trarsi fuori da quella sofferenza a cui si somma la mancanza della figura materna. Poi c’è il poliziotto di suo padre, mai un rimprovero, nemmeno quando la scopre con un uomo e comincia a seguirla nella sua attività come una corrente d’aria contraria, frontale a lei e invisibile, per rallentare la sua andatura, per proteggerla. Nella fattispecie: impedire ogni adulterio, scuotere i frequentatori nella coscienza, condurli alla morte. Allora la protagonista abbandonerà, spaventata, ogni proposito. Purtuttavia, nell’ amore e nella sensibilità di quel padre al di sopra di ogni sospetto esplode il flusso negativo, la frustrazione e il delitto di un uomo. Un incubo notturno la informa di tutto questo mentre sono fuori città, figlia e papà, per commemorare la mamma defunta da un anno, quando sui bordi di un lago una macchina di colleghi lo rileverà –autocostituitosi-, non prima che lei prendesse dimestichezza con la guida dell’ automobile sullo sterrato dove si trovavano. A un certo punto guida da sola, la samaritana, ora sapendo il perchè... il padre è lontano, in una scatoletta color bianco verso il suo destino, ma inseguendolo finirà in un pantano di fango.
L’ amore dappertutto e il dilemma, cosa è più accettabile: l’ amore compensativo e licenzioso, l’ amore che uccide, l’amore che si sacrifica... Tutto è profondo, ogni forma ha dignità ed è terribile e bellissima al contempo. Kim ki Duk, ennesima poesia.
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enoc
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domenica 26 giugno 2005
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doppio
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Essenziale, decisivo, cruciale: ecco gli aggettivi che spettano di diritto al decimo lungometraggio di Kim Ki-duk. Non tanto per raffinatezza estetica o intrinseci meriti artistici, ché – è bene dirlo subito – LA SAMARITANA non è una pellicola straordinaria, non brilla, per così dire, di bellezza propria. Ma per i motivi opposti: perché nelle sue imperfezioni, nelle sue sfilacciature, nelle sue paurose escursioni stilistiche, il film mostra con chiarezza inequivocabile la natura “doppia” del cinema di Kim Ki-duk.
In SAMARIA si legge perfettamente l’urto tra due registri filmici antitetici, la collisione di due estetiche opposte, lo scontro di due modi incompatibili di fare cinema. Da una parte un cinema schermato, pudico, fatto di intuizioni visive scardinanti; dall’altra un cinema didascalico, convenzionale, perfino ammiccante.
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Essenziale, decisivo, cruciale: ecco gli aggettivi che spettano di diritto al decimo lungometraggio di Kim Ki-duk. Non tanto per raffinatezza estetica o intrinseci meriti artistici, ché – è bene dirlo subito – LA SAMARITANA non è una pellicola straordinaria, non brilla, per così dire, di bellezza propria. Ma per i motivi opposti: perché nelle sue imperfezioni, nelle sue sfilacciature, nelle sue paurose escursioni stilistiche, il film mostra con chiarezza inequivocabile la natura “doppia” del cinema di Kim Ki-duk.
In SAMARIA si legge perfettamente l’urto tra due registri filmici antitetici, la collisione di due estetiche opposte, lo scontro di due modi incompatibili di fare cinema. Da una parte un cinema schermato, pudico, fatto di intuizioni visive scardinanti; dall’altra un cinema didascalico, convenzionale, perfino ammiccante.
Fino a THE COAST GUARD (2002) il cineasta coreano ha dato voce, violentemente, al nucleo visionario della sua poetica, facendolo deflagrare nel rabbioso lirismo di CROCODILE (1996), nella dolcezza lacerata de L’ISOLA (2000) e nella struggente mutezza di BAD GUY (2001). Ma da PRIMAVERA, ESTATE, AUTUNNO, INVERNO... E ANCORA PRIMAVERA (2003) il cinema di Kim Ki-duk è visibilmente slittato verso il polo narrativo e didascalico, pur ammantato – come nel sopravvalutatissimo FERRO 3 (2004) – di un alone poetico. E se in PRIMAVERA... la deriva narrativa, compressa dall’impaginazione rigorosa e sussunta dall’andamento pedagogico, è appena percepibile, in SAMARIA esce finalmente allo scoperto, lasciandosi osservare in tutta la sua aggressiva evidenza.
SAMARIA, insomma, è un film in conflitto con se stesso, spaccato in due, in tre, in mille pezzi. Il conflitto è leggibile a molti livelli. Anzi, a tutti. L’impossibilità dell’amicizia/amore tra Jae-yeong e Yeo-Jin, la divisione in tre capitoli (Vasumitra, Samaria e Sonata, quest’ultimo dal nome di una delle automobili più vendute in Corea), l’eterogeneità degli spunti religiosi (la prostituta indiana, il crocifisso marcio ma fiorito, Madre Teresa di Calcutta). Ancora: l’esitazione di Yeo-Jin sul da farsi (bruciare il denaro guadagnato dall’amica o restituirlo ai clienti?), l’incapacità del padre di parlare apertamente alla figlia, l’antagonismo tra il percorso di perdono e di punizione messo paradossalmente in atto dai due.
Ma soprattutto il conflitto stilistico: sequenze divise tra una macchina a mano frenetica e traballante e inquadrature rigorosamente statiche, impassibili. Primi piani banalotti contraddetti da totali o campi lunghi di gloriosa, ieratica bellezza. Dialoghi girati in campo/controcampo versione ultrastandard e folgoranti esplorazioni dello spazio in cui lo sguardo, svincolato dall’obbligo di raccontare, perlustra il profilmico a caccia di pure suggestioni plastiche. E, infine, il solito contrasto tra la rappresentazione iperrealistica della violenza e l’esclusione dal quadro del trauma finale. Un fuori campo fratturante.
Purezza e corruzione, santità e voluttà, perdono e espiazione: il dramma del sacro è lì, impresso sulla pellicola. Il solo, autentico peccato è che del Kim Ki-duk visionario rimanga ben poco. Senz’altro lo straziante finale.
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arnaco
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martedì 29 dicembre 2015
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sesso di colpa
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"C'è chi l'amore lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione
bocca di rosa né l'uno né l'altro
lei lo faceva per passione."
Così la canzone di De André. Qui lo si fa per comprare un viaggio in Europa. Più precisamente una procura i clienti, fa il palo fuori dal motel per eventuali incursioni della polizia e .... custodisce i soldi. L'altra si prostituisce e confessa all'amica/amante che lo fa con piacere, con allegria; le piace interessarsi a quello che fanno i suoi clienti e di uno si innamora pure. L'altra trangugia gelosa, ma, si sa, gli affari sono affari e la lava amorevolmente e con cura dopo ogni coito. Lo spettatore ingolosito spera di godersi anche lui qualcosa di quelle giovani e fresche nudità, ma invano.
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"C'è chi l'amore lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione
bocca di rosa né l'uno né l'altro
lei lo faceva per passione."
Così la canzone di De André. Qui lo si fa per comprare un viaggio in Europa. Più precisamente una procura i clienti, fa il palo fuori dal motel per eventuali incursioni della polizia e .... custodisce i soldi. L'altra si prostituisce e confessa all'amica/amante che lo fa con piacere, con allegria; le piace interessarsi a quello che fanno i suoi clienti e di uno si innamora pure. L'altra trangugia gelosa, ma, si sa, gli affari sono affari e la lava amorevolmente e con cura dopo ogni coito. Lo spettatore ingolosito spera di godersi anche lui qualcosa di quelle giovani e fresche nudità, ma invano. Eggià perché sono due quattordicenni o giù di li ed il regista, che vuole bollare la pedofilia, comincia col castigare lo spettatore voyeur. Senonchè, un brutto giorno, la "palo" si distrae e non fa a tempo ad avvisare di un'incursione della polizia l'amica che, per fuggire, si butta dalla finestra del motel, non altissima, ma abbastanza per picchiare la testa e morire. L'altra, in preda ai rimorsi, cosa fa? Non si dedica alla religione come il padre sembrava, fin da prima, incoraggiarla a fare con i sui racconti su Madre Teresa, miracoli vari, ecc. Decide invece di rintracciare tutti i clienti della defunta amica e di farsi "amare" da ognuno (a turno, niente orge!); ma invece di farsi pagare è lei, la Samaritana, a restitirgli i soldi che avevano dato all'altra. Ma il padre, che è in giro a fare il poliziotto, la vede per caso dalla finestra di un motel e cosa fa? Prende la figlia e la riempie di botte? No! Le parla amorevolmente cercando di farle capire che quello che fa non sta bene? No! La chiude in un convento? No! La porta da uno psichiatra? No! La pedina (in fondo è il suo mestiere), e cerca semplicemente di boicottarle tutti gli appuntamenti come meglio gli riesce anche con le botte (in fondo è il suo mestiere), finchè ne accoppa uno. A questo punto la figlia ignara, ma in qualche modo presaga, smette di fare la samaritana, si tiene dentro i suoi sensi di colpa, come fa il padre; e non si parlano. Un giorno il padre decide di portare la figlia a visitare la tomba della madre (eh sì, è anche orfana di madre la poverella) e li, anche senza parlarsi capiscono l'uno dell'altra e viceversa. Allora, sulla via del ritorno il padre insegna alla figlioletta (ancora piccola, in questo senso) a guidare l'auto; ma, occhio alla metafora, vuol dire insegnarle a cavarsela da sola nella vita. Poi, ad insaputa della figlia, si costituisce per telefono, proprio li in mezzo alla campagna. Una vettura della polizia arriva a prelevarlo; la ragazza cerca di stargli dietro con l'auto del padre (una Sonata, da cui il titolo di questo terzo episodio del film), ma evidentemente gli insegnamenti non sono stati sufficienti e si impantana nel fango (della vita, stando alla metafora). Nota per l'eventuale e improbabile lettore: il tono scherzoso non vuol dire che il fil mi sia dispiaciuto del tutto; certo qualche scena di sesso in più non mi sarebbe dispiaciuta!
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mercoledì 24 novembre 2010
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un film quanto mai attuale
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In una Corea succube dei condizionamenti dell’Occidente le gioveni leve vivono in un limbo che galleggia fra l’emarginazione da un benessere che ancora non ha invaso le loro vite e la ricerca di legami affettivi che sulbimano nei miti della vecchia Europa e nell’amore saffico.
In questo clima sociale così caratterizzato da uno sradicamento culturale, una delle poche tradizioni “indigene” che sopravvivono è quella di seppellire il caro estinto in luoghi solitari e appartati, al di fuori del tipico cimitero di matrice occidentale, che evidentemente non ha “attecchito” in quei luoghi di ancora recente colonizzazione capitalista. Ma i veri esempi, quelli dei santi che non davano tanta importanza ai cimiteri perché erano capaci di guarire piuttosto che dare estreme unzioni, non passano inosservati e lasciano un segno anche nelle coscienze dei coreani, seppur devastati da altre mode d’importazione come quella della pedofilia, che ha mostrato il volto peggiore dell’occidente cristiano.
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In una Corea succube dei condizionamenti dell’Occidente le gioveni leve vivono in un limbo che galleggia fra l’emarginazione da un benessere che ancora non ha invaso le loro vite e la ricerca di legami affettivi che sulbimano nei miti della vecchia Europa e nell’amore saffico.
In questo clima sociale così caratterizzato da uno sradicamento culturale, una delle poche tradizioni “indigene” che sopravvivono è quella di seppellire il caro estinto in luoghi solitari e appartati, al di fuori del tipico cimitero di matrice occidentale, che evidentemente non ha “attecchito” in quei luoghi di ancora recente colonizzazione capitalista. Ma i veri esempi, quelli dei santi che non davano tanta importanza ai cimiteri perché erano capaci di guarire piuttosto che dare estreme unzioni, non passano inosservati e lasciano un segno anche nelle coscienze dei coreani, seppur devastati da altre mode d’importazione come quella della pedofilia, che ha mostrato il volto peggiore dell’occidente cristiano. Ma la sapienza antica di un oriente ancora incontaminato non ha bisogno di Freud né di una polizia che invade la sfera privata per prevenire la forma più dilagante di iniquità che vi sia sulla faccia della terra e non si crea neanche tanti problemi quando si tratta di affrancarsi dai dictat di un vaticano che difficilmente riconosce la santità in vita e quasi mai nomina i suoi vescovi fra le persone più sante e irreprensibili sotto ogni punto di vista, a partire da quello di denunciare e sradicare il flagello della pedofilia fra le fila del clero.
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