elisa fongaro
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venerdì 29 giugno 2007
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canicola
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Fa caldo, questo è indubbio, e il caldo è lento e silenzioso. I fotogrammi passano alla velocità della vita che procede con la lentezza di chi si muove il meno possibile per non sentire caldo. La trama in un certo senso non c’è, nel silenzio di candide villette a schiera, raggiungibili attraverso lunghe e ampie autostrade costeggiate da grandi magazzini e iper-mercati.
Si sa che la felicità è una condizione inesistente, ma è reale la felicità che può dare la ricerca della felicità (mi si scusi il gioco di parole). Quindi la felicità è la ricerca di essa. Se, però, subentra un fattore –la canicola estiva, per esempio- che ostacola la lucidità degli uomini, ogni tipo di ricerca in questo senso viene naturalmente sospesa.
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Fa caldo, questo è indubbio, e il caldo è lento e silenzioso. I fotogrammi passano alla velocità della vita che procede con la lentezza di chi si muove il meno possibile per non sentire caldo. La trama in un certo senso non c’è, nel silenzio di candide villette a schiera, raggiungibili attraverso lunghe e ampie autostrade costeggiate da grandi magazzini e iper-mercati.
Si sa che la felicità è una condizione inesistente, ma è reale la felicità che può dare la ricerca della felicità (mi si scusi il gioco di parole). Quindi la felicità è la ricerca di essa. Se, però, subentra un fattore –la canicola estiva, per esempio- che ostacola la lucidità degli uomini, ogni tipo di ricerca in questo senso viene naturalmente sospesa. E si ritorna ai primordi, alla necessità della sopravvivenza. Caldo, lentezza, silenzio scatenano l’aggressività verbale e fisica. Chi non è aggressivo subisce, chi non è “normale” subisce e chi è aggressivo deve esserlo più degli altri.
Desolazione, solitudine, squallore. Il regista sembra odiare i suoi personaggi: li umilia, li rende ridicoli, li priva di qualsiasi dignità, li mostra nella loro decadenza fisica che, ovviamente, rispecchia quella morale. Non c’è bellezza, nemmeno nella giovane cubista che in alcune scene può essere scambiata per una delle sue attempate colleghe di set. La vecchiaia, come la gioventù, non è altro che una fase della vita di cellule destinate alla trasformazione in qualcosa di sempre più putrescente. Ci sono offerti semplicemente organismi –a tempo determinato e variabile- che rincorrono animalescamente qualcosa (comprensione? sostegno? vicinanza?) e che, come allo zoo, traggono piacere nell’esporsi al sole, beatamente in panciolle.
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gianleo67
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lunedì 26 ottobre 2020
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sotto la patina della civiltà occidentale
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La canicola agostana di un fine settimana nella periferia viennese fa da sfondo ad una serie di vicende segnate da squallore e violenza domestica, ma anche dai risvolti inaspettati di una tenerezza familiare che cova sotto le ceneri del rancore e della solitudine.
L'ostensione senza veli dello squallore di corpi stesi al sole ai bordi delle villette a schiera sul lungofiume danubiano richiamano, come già osservato da qualcuno, le gallerie di freaks negli scatti di Diane Arbus, ma anche le dissertazioni entomologiche di un cinema che scruta senza empatia la degradazione umana che porta alle sue estreme conseguenze il monadismo e l'alienazione della civiltà occidentale nel cuore della vecchia Europa.
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La canicola agostana di un fine settimana nella periferia viennese fa da sfondo ad una serie di vicende segnate da squallore e violenza domestica, ma anche dai risvolti inaspettati di una tenerezza familiare che cova sotto le ceneri del rancore e della solitudine.
L'ostensione senza veli dello squallore di corpi stesi al sole ai bordi delle villette a schiera sul lungofiume danubiano richiamano, come già osservato da qualcuno, le gallerie di freaks negli scatti di Diane Arbus, ma anche le dissertazioni entomologiche di un cinema che scruta senza empatia la degradazione umana che porta alle sue estreme conseguenze il monadismo e l'alienazione della civiltà occidentale nel cuore della vecchia Europa. Nella stagionale ricorrenza dell'occhio malvagio di un astro brillante che precede appena quello ben più abbacinante della nostra stella, il ciclico ripresentarsi di una follia collettiva nelle sue diverse declinazioni individuali; l'incrociarsi di dinamiche familiari all'insegna dell'incomunicabilità e del brutale linguaggio della violenza; l'emergere infine di istinti primordiali sotto la patina di una civiltà che della bellezza, della fierezza e del progresso di cui risuona l'inno nazionale nella sua beffarda parodia finale sembra non conservare più alcuna traccia. Al netto delle polemiche che ne hanno stigmatizzato la presunta gratuità dei suoi aspetti pornografici, ma anche dagli apprezzamenti pervenuti da più parti della critica festivaliera, la coerenza dello stile di Seidl contamina funzionalmente il suo approccio documentaristico con l'inserimento di attori non professionisti, allo scopo di neutralizzare l'emotività dello spettatore, spesso messo davanti a scene disturbanti, e riprodurre gli aspetti più scabrosi di una realtà umana con una forte valenza simbolica e politica: sotto la strisciante misoginia che emerge nelle relazioni affettive improntate a rituali di sottomissione e di potere ed alle valvole di sfogo di un'attività sessuale promiscua ridotta al rango di mera esibizione ginnica, covano i sintomi di un malessere personale per il quale latitano altri strumenti di elaborazione del lutto (la perdita della moglie per l'anziano ingegnere, la perdita della figlia per la coppia di separati in casa, la perdita dell'affettività per la matura insegnante sottomessa dal compagno); nel campionario di parossismi messi in scena dall'autore, persino la logorroica e psicolabile autostoppista di Maria Hofstätter, vero e proprio surrogato di una sottocultura della mercificazione che, tra un centro commerciale e l'altro, riproduce con insensata pervicacia vieti slogan da tv commerciale e che diventa il capro espiatorio d'elezione per una folla di inferociti adepti di un materialismo consumistico in cerca di vendetta per qualche graffio alla macchina. Un pugno ben assestato allo stomaco dello spettatore, appena alleviato dal velato lirismo delle scene finali: una coppia che si dondola sotto la pioggia piangendo in silenzio la figlia perduta, una coppia di anziani che culla un vecchio cane morente ed una bimba troppo creciuta che gioca divertita sotto le villette a schiera dei suoi spietati aguzzini. Leone d'argento - Gran premio della giuria al festival di Venezia 2001.
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