VIAGGI DI NOZZE (IT, 1995) diretto da CARLO VERDONE. Con CARLO VERDONE, VERONICA PIVETTI, CINZIA MASCOLI, CLAUDIA GERINI, GLORIA SIRABELLA, EDOARDO SIRAVO, NANNI TAMMA, MADDALENA FELLINI, ANGELA MASINI, FRANCESCO ROMEI, MANUELA ARCURI, PAOLO CONTICINI, PAOLO TRIESTINO, ADRIANA VOLPE, LUIS MOLTENI
A poca distanza dai settant’anni, dopo gli ultimi tre film (Sotto una buona stella, L’abbiamo fatta grossa e Benedetta follia), non tre pietre miliari, neanche relativamente alla sua filmografia, Verdone ha ormai ben poco da dire, e lo dice ripetendosi e cadendo nelle trappole che da sempre contraddistinguono il suo comunque cinema ben più che discreto: tradimenti coniugali, storie poco edificanti, istrionismo portato alle estreme conseguenze. Ma veniamo ad una pellicola di ventitré anni fa, la sua terza e penultima ad episodi e in cui interpreta più d’un personaggio: Viaggi di nozze permette all’attore-regista-sceneggiatore romano di mettere in piedi una commedia agrodolce sul matrimonio, croce e delizia delle relazioni interpersonali, nella quale sa osservare con lucidità i pregi e i difetti di un’istituzione tanto atavica quanto contraddittoria. E lo fa ricorrendo ad una scomposizione di volti e voci che gli è abituale fin dagli esordi: Raniero Cotti Borroni, primario carrierista, sempre attaccato ad un cellulare anche nei momenti meno opportuni, medico molto più devoto alla vedova e al suo lavoro assai remunerativo che non all’inibita e timida seconda moglie Fosca, immediatamente pentita di averlo sposato fin da quando lui le mostra dove saranno seppelliti nella cappella di famiglia; Giovanni, giovanotto candido e irascibile, il cui matrimonio con Valeriana sembra cominciare sotto i migliori auspici (a parte una celebrazione interminabile tenuta dallo zio prete dello stesso, interpretato sempre da Verdone), dato che marito e moglie partono per una crociera che toccherà varie capitali mediterranee, fra cui Tunisi e Il Cairo, se non che le rispettive famiglie d’origine finiscono per rovinare tutto quanto, col padre infermo di Giovanni che viene abbandonato dall’infermiera e dagli altri due figli, insensibili fratelli di Giovanni, e che il pover’uomo è costretto a portare in casa della madre, da cui però il padre è divorziato da un quarto di secolo, e dalla quale dunque il vecchio scappa, e con la famiglia di Valeriana, che ha una sorella madre aspirante suicida che vuole ammazzarsi (ma fa solo finta) perché il viscido marito Stefano l’ha tradita due volte per frustarne le aspirazioni lavorative, ma poi Giovanni e Valeriana, pur col padre di lui Adelmo al seguito, decidono di rifarsi con una vacanza ai Caraibi per rimediare alla crociera andata in fumo; e infine Ivano, borghese arricchito, volgare e ignorante, che sposa l’altrettanto burina Jessica, entrambi estremamente sessuomani, che s’inventano i luoghi più impensabili e le situazioni più bizzarre per copulare (contro lo stipite della porta, in macchina a duecentoventi chilometri all’ora, in apnea sott’acqua), finché Ivano non fa cilecca per la prima volta e Jessica, rimastane delusissima, lo porta seco in discoteca, ma nemmeno lì le cose vanno meglio, nonostante la presenza di due amici ugualmente insignificanti e tronfi come loro, perché tutto il quartetto si rende conto che non esiste ormai nulla più di eccitante od emozionante nel mondo consumistico. Insieme ad Un sacco bello, è la migliore opera ad episodi di Verdone, che grazie ad essa ha lanciato la Gerini e le ha spianato un’ottima strada nell’ambito della settima arte, anche se sia naturale preferirgli film "unici" come Compagni di scuola (la più amara e straordinaria commedia corale dell’attore-regista laziale), Il mio miglior nemico e il più recente Io, loro e Lara. Raniero è ovviamente ispirato al Furio Zoccaro di Bianco, rosso e Verdone, ma in una veste alquanto più cinica ed egoista. Ivano verrà ripreso tredici anni dopo per il Moreno di Grande, grosso e Verdone, in pratica senza nessun cambiamento nella morale del personaggio. Quanto a Giovanni, pare riecheggiare il Leo di Un sacco bello e il Mimmo di Bianco, rosso e Verdone, benché qui la sua ingenuità sia addolcita da un finale positivo che mette bene in mostra l’effettiva buona fede dei due protagonisti del relativo episodio, con una C. Mascoli che s’affianca al protagonista con brio e possanza. La 30enne V. Pivetti, che accusa dolori cerebrali durante il viaggio in treno verso Venezia che costringe il medico a fermarsi da un collega (L. Molteni, una comparsa di stile) in un ospedale bolognese, per poi raggiungere il capoluogo veneto da cui Fosca si defenestra uccidendosi perché troppo avvilita dal piglio ossessivo del consorte, si sfoga nel momento del primo amplesso per poi riacquistare la consueta chiusura emotiva che permea la sua performance, peraltro eccellente, in tutti i centotto minuti di durata. Quanto alla mitica Gerini, che restituisce a Verdone gli sguardi ammiccanti (quasi sempre col chewing-gum in bocca) che lui le rimanda prontamente e lo asseconda in tutte le sue libertine iniziative, è la prima ad affaticarsi dell’ossessione di entrambi per la musica hard rock ed heavy metal (idolatrano, fra gli altri, i Black Sabbath e i Nirvana), la ricerca sfrenata del divertimento fine a sé stesso e i giochetti erotici esposti nel tentativo di riallacciare il rapporto di coppia. In quest’ultimo caso, né il tormentone («Iva’, ‘o famo strano?») più celebre del film, né l’acceleratore su cui Verdone spinge il piede senza sbagliare una curva sulla strada dell’esuberanza e della vivacità, saranno duri a morire, eccome! Un difetto che invade Viaggi di nozze è una mancanza generale di gag ammucchiate a catena che facciano ridere senza limitarsi al loro effetto puramente estemporaneo, e questo costituisce un limite alla sua credibilità narrativa, ma senza ombra di dubbio ognuno dei tre episodi non nasconde il suo significato: quello del medico svela una viscerale e morbosa passione per la moglie morta che offusca la presenza di quella attuale e scopre tutti i lati quasi diabolici del carattere; quello di Giovannino è il solo a concludersi bene, alla faccia di tutto il parentado da parte del marito e della moglie che se ne infischiano delle questioni famigliari e sembrano metterci un impegno incrollabile nel far fallire la loro tranquillità coniugale; per chiudere, quello di Ivano è tecnicamente disperato a livello sociologico, tanto che Jessica, nel finale, si sente non più "strana", ma addirittura apatica, e va a riposarsi, mentre il marito giocherella qualche minuto al pallone e poi si stanca anche lui, afflosciandosi sul divano. Brevi apparizioni di P. Conticini nel ruolo di un agente di polizia e di P. Triestino nella parte di Ugo, il fratello indisponente di Giovanni che lavora alle poste. Fotografia: Danilo Desideri. Musiche: Fabio Liberatori (ex componente degli Stadio e amico personale dell’autore cinematografico di cui sto trattando). Costumi: Tatiana Romanoff. Premiato da un successo al botteghino forse un po’ esagerato, ma che conferma il gusto del pubblico nostrano per un cantore dei nostri tempi che di rado sbaglia nei giudizi sul malcostume italico in varie sue inclinazioni.
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