Okja

   
   
   

Il coraggio della normalità Valutazione 3 stelle su cinque

di frenky 90


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mercoledì 1 luglio 2020

Due cose, due. 1: Riscoprire Bong Joon Ho nel 2020 dopo la scorpacciata di Oscar è da occidentale ottuso, lo so, ma recuperare perle da un sacchetto bucato e tornare sui propri passi per ritrovare un sentiero perduto non hanno mai costituito reato quindi facciamolo, senza vergogna. 2: Guardare questo film addentando un succulento cheeseburger con bacon mi ha fatto sentire in colpa più degli spot della Bocelli Foundation quindi non fatelo, per carità. Veniamo all’opera. Recuperare questa ottima tragi-commedia kitch e sfarzosa è davvero d’uopo quindi mai occasione fu più gradita nel ripercorrere a passo di gambero la filmografia del Maestro (adesso tocca chiamarlo così!) del Paese che ormai non è più una sorpresa nel nobile campo della settima arte. Come non piazzare da subito l’occhio di bue attorno al deus dietro la macchina che, come sempre, inventa, scrive e dirige la sua creatura con rimandi più o meno espliciti al Gilliam soprattutto di Brazil e perfino al Landis dei Blues Brothers nella scena della distruzione del negozio sotterraneo e in quella “nascosta” dopo i titoli di coda in cui Paul Dano viene accolto all’uscita dal carcere dal figliol prodigo K, con dinamiche simili a quelle con cui il mitico Dan Akroyd accoglieva il mitico John Belushi. Immaginifica inventiva e illimitati mezzi tecnici che bisogna dire non sempre hanno colto nel segno (Memories of murder, Snowpiercer) ma che qui al servizio della satira di costume che non risparmia nessuno, non manca la scena dell’ambientalista ridicolizzato per l’impatto zero, centrano il bersaglio con la corretta misura di follia e retorica, chiasso e profonda riflessione, appunto, feroce denuncia e onestà intellettuale. Il soggetto del cineasta sudcoreano, aiutato alla sceneggiatura dal giornalista gallese Jon Ronson de “L’uomo che fissa le capre”, miscela con gusto la giusta dose di Walt Disney con la crudezza tipica della cinematografia di un popolo che, ricordiamolo, da sempre è abituato a convivere con la violenza, che Bong stigmatizza con la sua proverbiale leggerezza, diventata ormai il marchio di fabbrica del suo cinema. Non è nient’altro che l’ironia difatti forse il vero punto di forza della poetica dell’autore, che asciuga il sangue da uomini e super-animali con la garza della risata a denti stretti cui costringe il suo spettatore nelle scene più accese. Qualità, quest’ultima, che non può non avvicinarlo nell’immaginario comune al miglior Tarantino del quale però mai “copia” il modus operandi strizzando eccessivamente l’occhio al fagocitante universo nordamericano, personificando semmai uno stile con l’inchiostro a china di una firma unica nel panorama filmico contemporaneo. Proprio quando stiamo per avvicinare il palmo della mano agli occhi o ritraiamo la testa indietro per il senso di disagio e la paura del bieco splatter situazionista il nostro piazza uno sportello in faccia a un cartoonistico funzionario, riempiendo, letteralmente, di cacca lui e i nostri cattivi pensieri, se ci pensate come non dissimilmente accade con il Gianni Morandi del climax di Parasite. Vi sono poi i colpi di genio veri, tali per l’originalità dell’assunto, perfettamente esemplificati dalla trovata dei petali di fiore dei “terroristi gentili”, qualcosa di davvero mai visto innanzi a cui non possono che scrosciare gli applausi. Qualità, parola detta e da ripetere che, e veniamo all’analisi “tecnica”, diventa fiore all’occhiello nella ricchezza delle sequenze registiche qui dell’inseguimento a piedi del camion da parte della piccola Mija, che diventa un action movie del livello del primo De Palma, e si mette a servizio dell’immaginazione, parola detta e da ripetere, in quella dell’animale in catene che non si limita al facile coinvolgimento emotivo del pianto della mamma di Dumbo ma azzarda una soggettiva in cui i suoi occhi tramutano le croci di un cimitero nelle palazzine di New York, forse la più vera e struggente delle immagini del film. Aiutato dall’esperta fotografia dell’apprezzato Darius Khondji, il dominatore assoluto della notte degli Oscar 2020 mette in bella mostra il suo talento cristallino non sprecando un centesimo dei 50 milioni di dollari della produzione con, in ultimo, anche un garbato uso della CGI. Perfettamente inserite nel contesto sono le riuscite interpretazioni teatrali e burlesche del cast di lingua inglese con la ricorrente Tilda Swinton e l’irresistibile “cattivo” di Jake Gyllenhaal che paiono fare il paio con lo stile interpretativo tipico degli attori sudcoreani, fra cui per una volta spicca l’assenza di Song Kang Ho, che peraltro perfettamente si integra col visionario taglio di Joon Ho. La favola ha un lieto fine mascherato espresso con gentile maniera senza sbandierare a tutti i costi la bandiera del vegetarianesimo, lasciandoti dentro la commozione e la gioia dell’essere stato intrattenuto, semplicemente, da una bella storia. Cos’altro desiderare dal buio della sala?

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