Narrare una fiaba tramandata può avere un senso, ma il segreto è nella narrazione e non nella trama. Chi racconta deve sapere stuzzicare l’immaginazione di chi ascolta enfatizzando i toni, trasformando le voci, dipingendo scenari immaginari.
Boschi anonimi o pecore che percorrono un vicolo di campagna caratterizzano solo un “ovunque” che annienta anche il più nobile esercizio di fantasia. Le voci, quelle dei contadini , sono le uniche percepite, neanche graffianti, che tentano di suscitare un interesse alla conoscenza della storia. Si salta, senza che lo stacco temportale venga identificato, alla conoscenza di Luciano, troppo bello anche se imbruttito ad arte, che porta su di se evidenti disagi psico comportamentali sulla origine dei quali non si fa cenno.
Si sa che ha un padre facoltoso che gli consente di abrutirsi con l’alcool senza dover far altro che stordirsi vagando per le campagne o l’osteria.
La lotta per la sopravvivenza non lo scalfisce mentre, comprensibilmente, lotterebbe per una bella giovane che, in quanto tale, è convenzionalmente destinata alle attenzioni del principe despota del posto. Questi appare privo di qualunque aura principesca a meno del ridicolo colletto circolare bianco in uso all’epoca. Il duello tra Luciano ed il principe, a base di sguardi, farebbe pensare che si concentri su una contesa per la giovane, si sposta, invece sulla necessità di tenere aperta una porta nelle mura, vero oggetto di scontro tra Luciano e le disposizioni del principe che esercita la sua legge mediante guardie rozze di manzoniana memoria.
La fiaba si frantuma nel disfacimento dei ruoli e la narrazione si ciba a stento di silenzi.
Il taciturno e ubriacone protagonista, avulso dal desiderio di ricchezza e dalla ricercata inespressività, dopo aver incendiato la porta, rimasta chiusa e oggetto del suo ulteriore disagio, è costretto a scappare molto lontano, riapparendo come sacerdote, finto, in Argentina. Qui si scopre essere interessato a trovare una pepita nascosta solo lui sa dove; archetipo questo di un desiderio di ricchezza per soddisfare il quale si rischia addirittura di morire. Forse il viaggio dall’altro lato del mondo ne ha capovolto la sua indole? Seguono scene da film western ma senza cavalli, praterie, treni a vapore, diligenze, sceriffi e manco indiani. Inevitabile riportarsi con la memoria ai capolavori di Sergio Leone avendo però tolto i primi piani, gli sguardi intensi, la colonna sonora che da sola tiene il fiato sospeso, e la velocità dei pistoleri. Il granchio fa la sua apparizione come la trovata che vorrebbe dare un senso a le due diverse storie che sono state proposte, ma che non ha nessun collegamento con la prima parte se non i titoli iniziali e le scritte sulle locandine. Due film diversi che stanno sulla stessa pellicola.
Con la benedizione della scritta iniziale Rai Cinema e la proiezione a Cannes, dove vengono presentate le stranezze solo per poter dire che piacciono a pochi, il film si presenta alla frontiera del pubblico con un passaporto valido per chissà quale volo. L’atterraggio è fortunoso. Alla fine della proiezione, i sei spettatori che eravamo in sala, si sono guardati tra loro come sopravvissuti alla ricerca di una reclamizzata poesia o, più possibilmente, di una latta di benzina..
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