Frankenstein

   
   
   

Un Frankenstein così serio fa rimpiangere Mel Brooks

di Alberto Crespi La Repubblica

Su Frankenstein fecero anche tre film muti, negli anni '10. In fondo, perché no? Il mostro può far paura anche senza parlare. Contare tutti i film sonori dagli anni '30 in poi, parodie e cross-over inclusi (esiste anche Jesse James incontra la figlia di Frankenstein, 1966), è impresa impossibile. È un personaggio - anzi due, il dottore e la creatura - che non passerà mai di moda. Vietato stupirsi, quindi, che il messicano Guillermo del Toro abbia utilizzato i dollari di Netflix per una sua versione, in concorso a Venezia. Del Toro è un appassionato di vecchi horror: ha vinto un Leone d'oro con La forma dell'acqua che si ispirava a Il mostro della laguna nera. Il problema è che il suo Frankenstein, dopo Jay Kelly, è il secondo titolo Netflix che delude in questa Mostra. Il film non funziona come vorrebbe e può essere interessante capire perché. Come già Kenneth Branagh nel 1994, che per non sbagliare intitolò il film Mary Shelley's Frankenstein, Del Toro torna alla fonte primaria: il romanzo che Mary Shelley scrisse - secondo la leggenda - in quella famosa notte sul lago di Ginevra. La trama inizia fra i ghiacci del Polo, dove una nave incagliata incontra per caso un uomo ferito e delirante, poi un essere spaventoso e indistruttibile che fa strage fra i marinai. Il primo uomo viene issato a bordo e racconta al capitano la sua storia: è il dottor Victor Frankenstein, medico e visionario, convinto di poter riportare in vita i tessuti dei cadaveri. Poco oltre metà film il mostro sale a bordo e si rivela, all'improvviso, accomodante e forbito: racconta anche lui la sua versione, compresa la parte del romanzo in cui diventa amico di un vegliardo cieco e sapiente (Mel Brooks, in Frankenstein Junior, l'ha prodigiosamente sintetizzata nella scena dell'eremita interpretato da Gene Hackman: "Volevo offrirti una sambuca"). Del Toro si arrabbierà, ma vedendo il film si pensa continuamente a Mel Brooks. Perché il problema non è tornare alla trama inventata da Mary Shelley, anche se ci si dovrebbe domandare come mai i Frankenstein più classici - quelli con Boris Karloff - l'hanno sapientemente cambiata. Il problema è prenderla per oro colato. Shelley scriveva nel 1816: aveva fede nella scienza e al tempo stesso la temeva, e infatti diede al suo libro il sottotitolo Il moderno Prometeo. Per lei Frankenstein è colui che ruba il fuoco agli dei e ne paga le conseguenze. Ebbene, il film di del Toro sembra scritto nel 1818, a romanzo fresco di stampa. Ne assume tutti gli interrogativi etici come se non fossero passati due secoli abbondanti. Indugia in estenuanti dialoghi sulla medicina, sulla scienza, sull'amore romantico. E nel finale fa parlare il mostro come se fosse Schopenhauer. Insomma, prende il mito di Frankenstein terribilmente sul serio, ed è un po' difficile seguirlo dopo aver visto mille rivisitazioni e aver accolto il dottore e la creatura nel pantheon della cultura pop. Sia chiaro: il film è visivamente e tecnicamente splendido. E forse del Toro voleva proprio ridare a Shelley la "nobiltà" che in altri film è andata perduta. Gli attori, da Oscar Isaac a Christoph Waltz, ahinoi non aiutano. Jacob Elordi fa sforzi sovrumani per essere un mostro credibile, ma nel finale gli tocca recitare battute che Boris Karloff non avrebbe mai approvato.
Da La Repubblica, 31 agosto 2025


di Alberto Crespi, 31 agosto 2025

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