Ho avuto qualche difficoltà nella lettura di un testo famoso come La vita davanti a se, di Emile Ajar (pseudonimo di Romain Gary), premio Gouncourt, uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari che uno scrittore può ricevere in vita.
Certo, la psiche del suo autore, perseguitato dalla critica letteraria, incapace dopo l’attribuzione del premio di cui sopra con il romanzo Le radici del cielo, di non essere stato capace di ripetersi con libri di eguale valore, non lo aiutò. Eppure, ironia della sorte, proprio questo libro vinse non solo nuovamente il prestigioso premio ma anche l’entusiasmo della critica che prima aveva “massacrato” Gary per esaltare Ajar, il suo pseudonimo, salvo poi ricredersi.
E devo dire che in effetti, il suono artefatto di alcune affermazioni, la distonia, la duplice natura di un romanzo di formazione di un ragazzino arabo, Momò (abbreviazione di Mohammed) orfano nella banlieue francese di Belleville “allevato” da Madame Rosa, ex prostituta ebrea, mi ha lasciato da un lato affascinato “terribilmente” dalla sua epopea triste, dall’altro contrastato da riserve per via di frasi o affermazioni artificiose non propriamente appartenenti a un bambino quanto a un uomo maturo.
Eppure, nella vita periferica di emarginati e immigrati, clandestini, travestiti e tira a campare, la storia semplice di due solitudini, dell’amore perché di questo tratta La vita davanti a sé, tra una prostituta e un orfano, mi ha commosso, devo ammetterlo.
E lo stesso ha fatto l’adattamento, prosaico e ben equilibrato di Edoardo Ponti, il figlio di Sofia Loren cui l’attrice aveva già lavorato nell’esordio di lui Cuori estranei, con protagonista appunta la stessa Loren, che traspone la vicenda, colma di amarezza e disillusione nella Bari Vecchia dei nostri giorni.
Perché non c’è solo il racconto di un ragazzino di dieci anni, cresciuto da una vecchia ebrea che ha subito gli orrori del nazismo, segnandola indelebilmente nella sua psiche e nelle relazioni con altri figli di puttana, in quel quartiere di Belleville (nel romanzo), che qui invece traspare nei vicoletti ma la lucida ed implacabile disamina (volutamente sgrammaticata in alcuni punti o quasi favolistica per riflettere il pensiero di un bambino) di un giovane uomo sui rimpianti e le riflessioni di chi si guarda alle spalle (un paradosso ma è così!) e si accorge che il tempo, inesorabilmente e implacabilmente, è passato e, allora in qualche modo bisogna chiedersi il perché di certi fallimenti e soprattutto capire come cercar di andare avanti. Anche se si è bambini, anche se il dolore può essere traumatico.
Nel seguire le vicende di questa sorta di famiglia d'anima “allargata” costituita da Madame Rosa, “l’ex puttana tornata dalla deportazione nelle comunità ebree in Germania”, il nostro Momò, Madame Lola (un travestito senegalese carissima amica di Madame Rosa), il Signor Hamil (un vecchio arabo che si occupa dell'istruzione di Momò, interpretato da un bravo Renato Carpentieri) il pensiero va non solo a Pennac, ma soprattutto a quella vita schifa del giovane Holden di Salinger su cui però vive la freschezza di un testo che dimostra ancora un’attualità sorprendente benchè scritto quaranta e passa anni fa.
Nella vita davanti a sevive infatti uno stile originale frutto di una parlata ibrida fatta dell'yiddish, del gergo derivante dal quartiere così multiculturale e da espressioni altisonanti in un equilibrio tra dolcezza, ironia ed amarezza.Permeato da una vena poetica su cui affiora, il palcoscenico di un legame privo di vincoli di sangue, il film di Ponti è un elogio della joy de vivre, nonostante tutto, picassiana, un ossimoro in uno scrittore Gairy, cavaliere della legion d’onore, morto suicida.
Non era facile adattare un romanzo così strutturato (dai riferimenti con l’omonimo del ’78 vincitore oscar come miglior film straniero) ondivago nell’ambientazione, tra vie periferiche, e personaggi, rappresentanti un mondo di reietti in cui abbondano “prossineti”, drogati, prostitute, nel letame da cui nascon fiori, direbbe De Andrè, come Momò; eppure Ponti c’è riuscito senza retorica ma preservando, come nel romanzo, una dolcezza di fondo, un sentimentalismo, toccato dalla grazia di un’attrice come la Loren, esposto a una rudezza che non lo intacca ma lo lavora, levigandolo e rendendolo diamante scintillante, perla rara talentuosa a cui si perdona tutto. Anche la falsità di quel baluginio accecante.
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