|
A seguito del non proprio eclatante excursus ad Hollywood con The Last Stand – L'ultima sfida, Kim ritorna nei cinema con una storia per contrasto profondamente radicata nella storia del proprio paese.
Primo film sudcoreano prodotto dalla Warner Bros., The Age of Shadows (ma il titolo originale significa, letteralmente, “Emissario”), narra di una vicenda ambientata nella Corea (al tempo, naturalmente, ancora unita) degli anni ‘20, posta sotto l’occupazione giapponese.
E se la componente “patriottica”, che ha particolarmente appassionato gli spettatori coreani, può legittimamente risultare di scarso interesse allo spettatore straniero, questa non va comunque ad inficiare il puro piacere della visione di un film prima di tutto curatissimo a livello estetico. La fotografia di Kim Ji-yong è di prim’ordine, così come lo sono i costumi e le scenografie, capaci di trasportare lo spettatore all’interno del periodo storico.
E Kim, come c’era da aspettarsi da lui, dirige con mano ferma le scene d’azione (da antologia almeno quella del treno).
Inoltre, anche la trama in sé, seppur a tratti tirata per le lunghe, riesce ad appassionare. Ad una prima parte oggettivamente un po’ faticosa, fitta di incontri e di dialoghi (che hanno in ogni caso il pregio di far emergere il talento degli interpreti), ne segue infatti una seconda, corrispondente all’incirca all’ultima ora e venti, densa di fatti ed avvenimenti, di azione e sentimento, nonché, per lo spettatore più sensibile, anche di commozione. Una seconda parte che eleva decisamente il film e si conclude con un’ottima sequenza di chiusura, che seppur in parte già vista, si faticherà indubbiamente a dimenticare (tra le altre cose, certamente non secondario l’apporto reso da Song, che si conferma ancora una volta [non che ce ne fosse bisogno] uno dei migliori attori sudcoreani del nuovo millennio).
The Age of Shadows riesce perfettamente a ricreare il clima di tensione che si doveva respirare in quegli anni, e in ultima analisi conferma la crescita di un certo cinema commerciale nel paese che intende fare i conti con la propria storia, senza indulgere eccessivamente né nel patetismo né, peggio, nella retorica nazionalista (le imprese dei protagonisti sono viste con indubbia simpatia, tuttavia non si manca di mostrare come anch’essi non si tirassero certo indietro dal compiere gesti efferati [in fin dei conti, ogni resistenza ha i suoi lati oscuri e, in definitiva, non bisogna dimenticare comunque di contestualizzare gli eventi]).
Eccellenti, in generale, gli interpreti (tra i quali, oltre a Song, si distingue Gong Yoo, protagonista lo stesso anno anche di Train to Busan).
[+] lascia un commento a laurence316 »
[ - ] lascia un commento a laurence316 »
|
twitter
diventa fan
