Trasposizione cinematografica claustrofobica di una piece teatrale. Il film è girato quasi tutto nel piccolo giardino sul retro di una villetta, realizzato ad uso e consumo della performance attoriale drammatica di Denzel Washington, che se la canta e se la suona autoproducendosi e autodirigendosi. I ripetuti, insistenti, compiaciuti primi piano uniti alla prorompente e irrefrenabile logorroicità del protagonista, soprattutto nell’interminabile monologo iniziale, che il doppiatore Pannofino, con tono di voce monocorde e stucchevole, non fa nulla per rendere meno noioso, risultano al limite della sopportabilità.
Il testo di un acclamato e pluripremiato drammaturgo afroamericano, August Wilson, grondante retorica e pietismo da ogni parte, finisce per sotterrare la tematica centrale, che dovrebbe essere quella delle barriere razziali, che hanno impedito al protagonista di emergere nello sport nel quale eccelleva da giovane, sotto una caterva di situazioni drammatiche che lo coinvolgono, dal fratello handicappato, per colpa di una scheggia che gli si è conficcata in testa durante la guerra, al figlio disoccupato che lo va a trovare soltanto per spillargli qualche dollaro, fino all’amante che muore durante il parto.
[+]
Trasposizione cinematografica claustrofobica di una piece teatrale. Il film è girato quasi tutto nel piccolo giardino sul retro di una villetta, realizzato ad uso e consumo della performance attoriale drammatica di Denzel Washington, che se la canta e se la suona autoproducendosi e autodirigendosi. I ripetuti, insistenti, compiaciuti primi piano uniti alla prorompente e irrefrenabile logorroicità del protagonista, soprattutto nell’interminabile monologo iniziale, che il doppiatore Pannofino, con tono di voce monocorde e stucchevole, non fa nulla per rendere meno noioso, risultano al limite della sopportabilità.
Il testo di un acclamato e pluripremiato drammaturgo afroamericano, August Wilson, grondante retorica e pietismo da ogni parte, finisce per sotterrare la tematica centrale, che dovrebbe essere quella delle barriere razziali, che hanno impedito al protagonista di emergere nello sport nel quale eccelleva da giovane, sotto una caterva di situazioni drammatiche che lo coinvolgono, dal fratello handicappato, per colpa di una scheggia che gli si è conficcata in testa durante la guerra, al figlio disoccupato che lo va a trovare soltanto per spillargli qualche dollaro, fino all’amante che muore durante il parto. Per non parlare del suo vissuto tragico, la fuga da casa a 14 anni a causa di un padre violento, trascorsi di vagabondaggio e di rapine e, dulcis in fundo, il carcere duro per un omicidio. Non mancano spunti shakespeariani con dialoghi immaginari del netturbino di colore addirittura con la Morte.
Il finale strappalacrime, coi fratellastri che cantano la canzonetta stonata che amava canticchiare il padre, appena defunto, ovviamente, nel giardinetto dietro casa mentre si allenava con una mazza da baseball, completa il quadro.
Il cast dignitoso, con Viola Davis, nella parte della moglie, premiata con l’Oscar quale migliore attrice non protagonista, non è sufficiente, tuttavia, a risollevare le sorti di una pellicola che sconta l’errore di aver messo in scena un soggetto, intriso di un sentimentalismo melenso e autocommiserativo, che non soltanto non rende giustizia alla causa dei neri in America, ma anzi denota un’inconscia omologazione alla cultura popolare bianca riproponendo i tipici topoi hollywoodiani dei buoni sentimenti e dei valori familiari che alla fine prevalgono sul male.
La questione razziale non merita questo.
[-]
|
|